Quest’ultimo è un programma gestito direttamente da Bruxelles: «Si tratta dell’operazione di finanziamento alla ricerca più importante mai fatta a livello mondiale – spiega il prof. Spoto -, con un investimento di circa 80 miliardi di euro nei 7 anni dal 2014 al 2020. Si va dai progetti di ricerca di base a quelli più articolati che uniscono strutture di ricerca e aziende nell’intento di rispondere a problemi sociali in Europa, dai progetti rivolti esclusivamente alle piccole e medie aziende a quelli che finanziano giovani ricercatori».
Il prof. Spoto è coinvolto in 2 dei progetti di Horizon 2020: «Il primo, partito a metà del 2015, lo coordiniamo noi: è il progetto Ultraplacad – finanziato dall’Ue con 6 milioni di euro – che ricade nell’area di collaborazione tra strutture di ricerca e aziende per rispondere a problemi sociali, in questo caso la salute. Dopo essere arrivati primi in un bando al quale hanno partecipato più di 460 proposte, guidiamo i 13 partner (7 tra università e gruppi di ricerca, 5 aziende tra cui una multinazionale e un ospedale) distribuiti su 7 nazioni europee. Questo progetto, per il quale l’anno scorso la Commissione Ue ci ha inseriti nel suo sito tra le storie di successo della ricerca in Europa, finirà quasi alla fine del 2018: in pratica, sviluppiamo metodi di analisi per la diagnostica medica e clinica». Il target della ricerca è in particolare il tumore al colon retto, sia sul fronte di una diagnostica precoce («Quando le comuni tecniche diagnostiche non lo rilevano ancora»), sia su quello di controlli frequenti dello stadio del tumore necessari per capire «se il tumore è stato estirpato o come stanno procedendo le terapie», anche in ossequio all’idea sempre più affermata della medicina personalizzata. Il paziente di tumore va infatti costantemente monitorato: oggi ciò significa effettuare esami invasivi e costosi (biopsie di tessuti) o, in alcuni casi, impossibili perché non si può accedere al tumore. «Da tanti anni – spiega il prof. Spoto – si sa che le cellule del tumore, come tutte, subiscono processi di degradazione e muoiono: nel momento in cui avviene ciò, rilasciano quello che hanno all’interno. Le cellule tumorali, circolando nel sangue, potrebbero virtualmente diventare gli elementi da studiare per capire se c’è il tumore e a che punto è. Il Dna e il micro Rna delle cellule tumorali subiscono infatti delle piccole mutazioni e, in base al tipo di mutazione, il medico potrebbe stabilire quale sia il farmaco migliore da utilizzare. Analizzare le cellule utilizzando non il tessuto (come per le normali biopsie) ma il sangue potrebbe permettere controlli molto meno invasivi e applicabili anche nei casi in cui il tumore non si può raggiungere». Il concetto di biopsia liquida si basa su questo concetto: ma riuscire a trovare frammenti di Dna o micro Rna portatori di mutazioni del tumore è difficilissimo a causa della loro bassissima concentrazione. Il prof. Spoto, con il progetto Ultraplacad, sta tentando proprio di fare questo: «Utilizziamo in parte nanostrutture per generare effetti particolari che si chiamano plasmonici: facendo interagire la luce con queste particolari strutture di dimensioni nanometriche, la luce subisce delle modifiche di intensità o di lunghezza d’onda che sono in funzione di quello che sta attorno alle nanostrutture e che si possono facilmente misurare. Noi e i nostri partner stiamo mettendo a punto uno strumento per rilevare questi piccoli frammenti di Dna o di micro Rna, portatori delle mutazioni del tumore, anche a concentrazione bassissima, in maniera relativamente semplice. Saranno costruiti un nuovo strumento (in Francia) e dei chip, piccoli dispositivi usa e getta a basso costo utilizzati per le analisi (in Finlandia)».
Alcune mutazioni hanno più importanza per capire quale farmaco utilizzare, altre sono più importanti per la valutazione dello stadio precoce del tumore. «Oggi – spiega il prof. Spoto – si sta modificando la visione dei tumori. Finora, infatti, si è parlato di tumore al colon, al seno e così via, mentre oggi si sta scoprendo che alcuni di questi tumori hanno in comune tante mutazioni: si comincia quindi a spostare l’attenzione e la classificazione dei tumori verso le mutazioni. In altre parole, si punta a creare un pool di pazienti con tumori diversi, ma mutazioni comuni, sui quali provare lo stesso farmaco».
Le tempistiche non saranno lunghe, rispetto a quelle consuete che intercorrono tra la ricerca pura e l’applicazione pratica, anche perché questo progetto fa parte di quelli di Horizon 2020 che mettono insieme istituti di ricerca e aziende: «Ora siamo nella fase della costruzione del prototipo industriale (preceduto dalla costruzione di un prototipo di laboratorio), che verrà realizzato entro novembre. Parallelamente, sarà costruito il chip che contiene le nanostrutture, si svilupperanno i saggi per determinare le molecole circolanti e il progetto si concluderà a ottobre 2018 con una validazione all’ospedale Regina Elena su campioni di pazienti». C’è un piano più aggressivo che prevede un’immissione del prodotto sul mercato entro tre anni dalla fine del progetto, un altro più rilassato che prevede una tempistica di 5 anni: in altre parole, questi nuovi strumenti dovrebbero essere a disposizione dei pazienti tra il 2021 e il 2023.
Questo per quanto riguarda il progetto Ultraplacad. Ma recentemente, sull’abbrivio del primo, il dipartimento del prof. Spoto è stato inserito anche nel progetto Aipband. «In questo caso, siamo partner (capofila è l’università di Plymouth in Inghilterra): ci hanno voluto per le competenze e i progressi su questi nuovi metodi, da applicare, in questo progetto, alla cura del glioma (un tumore del cervello). La finalità, in questo caso, è finanziare tutto ciò che serve per formare un giovane ricercatore che possa trarre il massimo vantaggio dall’interagire all’interno di una selezione di gruppi come questa». In questo progetto, ci sono 12 partner su 5 nazioni europee: «Ognuno di noi “assumerà” un giovane, che non deve avere un’esperienza di ricerca superiore ai 4 anni, che conseguirà il dottorato con questo progetto. Si tratta di uno strumento per continuare l’attività di ricerca, col contemporaneo intento di formare giovani ricercatori che crescano professionalmente, interagendo con gruppi che hanno già dimostrato di sapere essere competitivi a livello internazionale». Il finanziamento dell’intero progetto è 3 milioni di euro, dei quali l’università etnea riceverà circa 300mila euro, che serviranno a finanziare la ricerca e a pagare lo studente. Col paradosso che, essendo la commissione Ue a stabilire, basandosi su standard internazionali, il trattamento economico di tutti gli studenti coinvolti, «chi verrà a lavorare qui, guadagnerà quanto guadagno io e molto più degli altri studenti in laboratorio che hanno già esperienza».
Le selezioni avverranno a livello internazionale: «Nel precedente progetto, abbiamo ricevuto tantissime domande da Cina, India e Iran. Per la nostra esperienza, però, la gestione di extraeuropei è un incubo. C’è da dire, d’altronde, che abbiamo avuto problemi anche con Horizon, perché la Commissione Ue per un anno e mezzo non ha riconosciuto le tipologie di contratti, come gli assegni di ricerca, che di norma si attivano in Italia per queste posizioni. E poi c’è il problema delle continue valutazioni negative sulla nostra università, per cui nessuno ci vuole venire. In quel progetto, di cui ero il coordinatore, non ho avuto alcun italiano: i partner olandesi e cechi si sono presi gli italiani. È assurdo che, nel progetto che guidiamo noi, gli italiani vadano in Olanda».
E qui il discorso cade inevitabilmente su cosa non va nella ricerca in Italia, nonostante l’ottima formazione che ricevono i nostri studenti che all’estero sanno farsi ben valere: al di là degli innegabili problemi di carenza di fondi e di nepotismo accademico, per il prof. Spoto «c’è un problema di sistema. L’impressione è che si sia un po’ persa la bussola, la capacità di stabilire le giuste priorità. Occorre tornare a capire che l’università ha come priorità assoluta gli unici due motivi per cui esiste: la didattica e la ricerca. Ma a volte queste sembrano essere le ultime preoccupazioni».
C’è poi anche un problema di contesto e di infrastrutture: «Il mio dipartimento, ad esempio, si è allagato un numero infinito di volte e, a progetto avviato, abbiamo perso tutto proprio in uno degli allagamenti. Ma c’è anche un problema di contesto culturale. In realtà, bisognerebbe avere il coraggio, senza guardare in faccia nessuno, di mettere il merito e la qualità al primo posto, qualunque cosa ciò costi. Devo dire tuttavia che negli ambiti in cui si fa ricerca, siccome hai bisogno di quello bravo che ti dà il valore aggiunto, questa situazione la avvertiamo meno pesantemente. Dal nostro punto di vista, a pesare maggiormente sono le carenze infrastrutturali».