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Dai diamanti all’alta pasticceria: la storia di Francesco Realmuto, imprenditore di Baucina che ha “spiegato” il gelato agli americani

Emigrato a New York nell’89 ora è a capo di un piccolo impero enogastronomico

Di Carmen Greco |

Francesco Realmuto è uno che non si ferma mai. Almeno da 36 anni quando, 19enne, prese un volo per New York con la sorella e si trasferì nella Grande Mela senza avere nemmeno un’idea chiara di quello che avrebbe voluto nella vita.

«Sono cresciuto a Baucina. Per me e per i miei coetanei era un piccolo paradiso, il mio mondo era tutto lì. Palermo era lontanissima, ci andavo due volte l’anno, ricordo i profumi per la città, di caffè, di arancine… Mia mamma era casalinga, mio mio padre lavorava in una ditta di costruzioni, il resto del tempo lo trascorreva in campagna avevamo l’uva, le olive, le mandorle… Poi nel 1970 i miei nonni sono emigrati in America con i miei zii e mi capitava, in occasione di matrimoni e feste familiari, di andare lì e trascorrere del tempo».

Cosa voleva fare da grande?

«Da ragazzino pensavo di diventare come mio zio che aveva una ditta di costruzioni, mi immedesimavo in quello che faceva lui. Mi piaceva la letteratura, avrei voluto studiare al Classico, ma i miei genitori non volevano che andassi a studiare a Palermo e così feci ragioneria a Ciminna, a 10 minuti di autobus anche se i numeri non erano il mio forte».

Quando ha deciso di trasferirsi negli Usa?

«Nell’89. Io e mia sorella eravamo venuti qui per trovare i nonni e siamo rimasti. Io avevo 19 anni, mia sorella 14, papà e mamma erano perplessi, ma dopo un anno ci hanno raggiunto».

Si ricorda ancora cosa le passava per la testa in quel primo volo intercontinentale?

«Certo. C’era un signore anziano accanto a me, abitava in America era andato in vacanza di Sicilia. Parlando con lui mi domandai cosa mi dovessi aspettare a NY. Mi consigliò di iniziare a fare il lavapiatti in qualche ristorante. Non è stato facile, soprattutto agli inizi, anche perché non avevo né scuole, né un mestiere in mano e negli Usa quando arrivai c’era un po’ di crisi del lavoro. Mi barcamenavo fra fra la pizzeria di un mio zio a Long Island e il lavoro nell’edilizia. Facevo quello che trovavo, non quello che mi piaceva, non avevo scelta, dovevo sopravvivere, avevo un appartamento da pagare, avevo preso le redini della famiglia in mano, anche per aiutare i miei genitori che erano spaesati. Non conoscevano l’inglese, non guidavano . A 19 anni sono dovuto diventato grande, però ero molto ambizioso, sapevo di voler trovare un lavoro che mi avrebbe appagato sia economicamente che professionalmente».

La svolta quando arrivò?

«Mi ero rivolto a un mio amico di Baucina che viveva già lì e lavorava come incastonatore di pietre preziose. Gli avevo chiesto di inserirmi nel settore e l’occasione arrivò dopo due anni quando mi proposero di fare il tagliatore di diamanti nella 47ª strada».

Un mondo totalmente sconosciuto per lei…

«Assolutamente. mi immaginavo seduto a un tavolo con un camice bianco (ride ndr), mi ritrovai in uno spazio angusto con le mura annerite per la polvere di diamanti che volava e si depositata sulle pareti. Tornavo a casa ogni sera con i vestiti sporchi, intontito dal rumore assurdo che facevano le macchine.. Ero perplesso, ma ho resistito per un anno e mezzo facendo il tirocinio a 150 dollari a settimana; sabato e domenica continuavo ad arrotondare lavorando nelle costruzioni. Dopo un anno ho cominciato a trattare diamanti grezzi per fatti miei ed è stata la prima volta che mi sono detto “Wow, finalmente posso fare quello che voglio come voglio”. Era il 1992. Ci ho messo molto impegno e alla fine sono diventato uno dei tagliatori più bravi del distretto dei diamanti. Su 2000 tagliatori gli italiani eravamo solo in due».

E poi?

«Per 12 anni ho fatto questo lavoro, a 35 anni la passione per il cibo che avevo sin da bambino mi ha portato a cambiare».

Entrando in una cucina?

«No, non ho mai fatto il cuoco. Cucinavo a casa e nel frattempo mi facevo una cultura delle diverse cucine nel mondo sushi, francese, messicana… Una volta al mese andavo a mangiare in un ristorante di haute cuisine».

Non era il classico italiano nostalgico per pizza e spaghetti…

«No, no, ho scoperto cucine internazionali molto diverse che in Italia nemmeno esistevano».

Quando ha capito che sarebbe stato quello il suo futuro?

«In realtà abbastanza presto, però a 35 anni era tardi per mettersi a studiare da cuoco, volevo fare qualcosa di diverso e mi sono buttato di colpo a fare gelati artigianali all’italiana. Ho chiamato un mio amico che aveva una gelateria a Treviso per chiedergli qualche consiglio, ho lasciato il mondo dei diamanti e ho aperto il primo locale a NY nel 2005 “l’Arte del gelato”».

Come mai a Treviso e non in Sicilia?

«Perché all’epoca ero ignorante in materia, non capivo il patrimonio che la Sicilia aveva sul gelato, non sapevo quello che so oggi. Ma fondamentalmente perché il mio amico era a Treviso…».

E la gelateria come andò?

«All’inizio non bene. Gli americani mi chiedevano ice cream springles (le decorazioni sui gelati ndr), io cercavo di accontentare un po’ tutti fino a quando non capii che dovevo fare quello che piaceva a me non agli altri. Dovevo credere nel mio “concept” non seguire la formula del “se alla gente piace…”. Così ho cominciato a proporre i classici gusti della gelateria italiana artigianale, quelli che trovavo al mio paese cioccolato, crema, nocciola pistacchio, limone… I nostri gelati oggi sono nei musei al Guggenheim, al Natural history museum, fra i dipendenti di Google… Siamo stati dei pionieri».

Nel frattempo è passata molta acqua sotto i ponti…

«Ho aperto una pizzeria, e una taqueria messicana al Rockefeller center, ma il mio sogno era quello raggiunto da pochi mesi: aprire un caffè in stile italiano con gelateria e pasticceria. Volevo che gli americani vivessero quello che avevo vissuto io in Italia con il caffè dove ci si siede al tavolo, con le coppe di gelato e le paste, come negli Anni ‘70-‘80, stile Gilli a Firenze o Cova a Milano».

Com’è oggi la Sicilia vista da NY?

«Negli ultimi 6/7 anni è esplosa turisticamente. È lontana l’idea che in Sicilia ci sia il mafioso con la lupara pronto ad ammazzarti. Ora gli americani l’adorano anche se si lamentano della scarsa professionalità nel settore della ristorazione. Loro amano essere coccolati e accuditi e su questo in Sicilia nonostante qualche realtà di alto livello c’è ancora molto da fare.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA