Sicilians
Da un prof palermitano un «importante contributo italiano in ricerca su leucemie e linfomi»
Essere ricevuti dal presidente della Repubblica, in questo caso, un siciliano, Sergio Mattarella, che premia un altro siciliano. Cosa significa e, se non sono troppo indiscreto, cosa vi siete detti?
“E’ stata una grandissima emozione ricevere il premio dell’Airc al Quirinale direttamente dalle mani del presidente. Mi ha colpito il suo sguardo luminoso e la elegante semplicità dei suoi gesti. Avendo insegnato a Giurisprudenza a Palermo negli anni 70, Mattarella è ovviamente un ottimo conoscitore dell’ambiente giuridico di Palermo e ricordava mio padre che era allora magistrato della Corte di appello. Con Mattarella, e soprattutto con il presidente del Senato, Grasso (che di mio padre è stato allievo negli anni 60 come giovane uditore giudiziario) abbiamo ricordato la figura mio padre”.
Possiamo dire che l’Italia, nel campo della ricerca, ovviamente parliamo del suo settore, è decisamente all’avanguardia. Quali sono i passi e le scoperte più recenti?
“Se si guarda alla produzione scientifica, l’Ematologia rappresenta la prima disciplina in assoluto, mentre nel mondo è seconda soltanto a quella degli Stati Uniti. Sia in ambito oncoematologico (leucemie, linfomi) che negli altri settori ematologici (coagulazione, anemie, etc.) la ricerca italiana ha innanzitutto contribuito in modo sostanziale a identificare meglio alcune malattie. Infatti, l’inquadramento diagnostico moderno delle malattie ematologiche da parte della Organizzazione Mondiale della Sanità porta le firme di diversi ricercatori italiani. Questo avviene a seguito di scoperte fondamentali, da parte di nostri ricercatori, che hanno permesso di identificare nuovi marcatori per la diagnosi e per il monitoraggio della risposta, il che a sua volta consente di stabilire con maggior precisione la terapia da adottare per ogni singolo paziente. Un altro importante contributo è quello dato dall’Ematologia italiana allo sviluppo di terapie “mirate” di cui abbiamo esempi paradigmatici nella cura della leucemia promielocitica e della leucemia a cellule capellute. Ma se ne potrebbero citare molti altri”.
Sul piano personale, il suo è un lavoro che va al di là del semplice “mestiere”. La possiamo definire una vocazione? E quando e in che modo ha deciso di avvicinarsi a questo mondo?
“E’ davvero un lavoro assai impegnativo, da un lato perché coinvolge molto emotivamente il confronto con la sofferenza e la tragedia di molti pazienti che ancora non riusciamo a guarire e delle loro famiglie. Penso che sia necessaria una speciale attitudine nell’affrontare queste situazioni, mi riferisco anche alla comunicazione nel rapporto con il malato e con i suoi cari. Questa attitudine si può in parte anche acquisire da un maestro, ma vorrei dire che chi è per sua natura arrabbiato con il mondo non dovrebbe fare il medico e tanto meno l’infermiere. Ciò che mi ha affascinato, in particolare, è la ricerca e quello che questa offre in campo oncoematologico. La leucemia è un tumore metastatico fin dall’inizio, per definizione, perché circola in tutto l’organismo. Al contempo, abbiamo accesso facilitato al materiale da studiare in laboratorio, in quanto esso è immediatamente reperibile con un semplicissimo prelievo di sangue. Possiamo studiare in laboratorio queste cellule o congelarle e ricorrere (ovviamente previo consenso) al materiale che avevamo criopreservato quando nasce una nuova idea di studio. Questo semplice fatto è fantastico ed è in buona parte all’origine dei grandi progressi che si sono registrati nel nostro settore. Possiamo davvero essere orgogliosi della grande Scuola Italiana di Ematologia e di Maestri come Franco Mandelli e Sante Tura. Subito dopo la laurea a Pisa, affascinato dal potenziale della ricerca ematologica, mi spostai a Roma per sostenere l’esame di ammissione alla Scuola diretta dal professor Mandelli. Questa scelta mi permise inoltre di rientrare in famiglia. Mio padre era infatti diventato magistrato di Cassazione a Roma ed abitavamo in un piccolo appartamento nei pressi di piazza Navona, di là dal Tevere non lontano dal Palazzo di Giustizia”.
Si parla sempre di “fuga dei cervelli” dall’Italia. E’ vero? Che futuro può offrire, la ricerca, ai nostri giovani?
“Anche io mi sono in parte formato negli Stati Uniti, alla Columbia University di New York, dove ho vissuto due anni. Dopo una esperienza davvero straordinaria e pur avendo la possibilità di fermarmi negli Usa, decisi di rientrare. Sentivo che avrei avuto le mie possibilità di carriera (e di fare buona ricerca) anche in Italia. Così è stato, anche se forse gli sforzi necessari ad emergere furono di gran lungo assai maggiori di quelli che avrei dovuto fare negli Usa. Non mi riferisco alla quantità di lavoro ma allo spreco di energie che ci costa la lotta contro stupidi legacci burocratici, penuria di mezzi e mancanza di organizzazione. Se molti giovani di valore ancora oggi emigrano è per questi motivi, non certo per la mancanza di maestri o di ricercatori che li sappiano guidare. Ma mi sento di dare anche un messaggio positivo ai nostri giovani che intraprendono da noi la strada della ricerca. Alcune realtà italiane, ad esempio l’Airc, continuano ad offrire grandi opportunità ai giovani di talento. Vorrei citare in proposito quanto sia stato determinante nel muovere i primi passi della mia carriera l’Airc. 1) Circa 20 anni fa, non avendo una posizione accademica o istituzionale, potei inviare una richiesta di finanziamento per il mio progetto ad Airc e questa fu approvata. Il ministero della Ricerca e quello della Salute mi richiedevano obbligatoriamente un titolo accademico o un incarico ospedaliero per poter fare la domanda. Airc non chiede che titolo hai, guarda la qualità dei progetti e basta. 2) Il progetto che ha portato alla cura della leucemia promielocitica e che ho avuto il privilegio di coordinare, si deve a uno studio clinico condotto in Italia ed in misura minore in Germania. In Italia lo studio non ha avuto finanziamento statale (essendo stato peraltro rigettato) mentre in Germania i ricercatori coinvolti hanno avuto un sostanziale aiuto dal Ministero della Ricerca. Da noi, siamo riusciti a farlo grazie ad associazioni di beneficenza come Airc e Ail. Un’altra grande realtà del nostro Paese, assai rilevante per la ricerca clinica è il gruppo cooperativo Gimema, che riunisce tutti i principali centri universitari e ospedalieri italiani per rendere uniformi diagnostica e terapia delle leucemie, e per condurre studi clinici. Fondato più di 30 anni fa dal prof. Mandelli, Il Gimema è oggi una struttura che offre uno straordinario modello di appropriatezza terapeutica e, direi senza esitazione, di “buona sanità” nel nostro Paese. Al Gimema afferiscono fin dalla sua nascita i principali centri di ematologia siciliani con i quali collaboriamo da decenni”.
Cinquecento milioni per la ricerca previsti nella Finanziaria 2017. Troppi? Pochi? O, più semplicemente, campagna elettorale? Al di là delle polemiche, quanto è importante questo capitolo della nuova manovra?
“Si è aumentato il finanziamento ma restiamo assai lontani e ahimè poco competitivi rispetto a tanti altri Paesi non solo d’oltreoceano ma europei (vedi Francia, Inghilterra, Germania) i cui governi destinano fondi assai più consistenti alla ricerca. I fondi insufficienti non sono l’unico problema. Come più volte hanno detto autorevoli ricercatori, esiste anche un problema di mancanza di coordinamento da parte di un ente unico, una agenzia centrale della Ricerca che identifichi le forse in campo, i settori da privilegiare o sviluppare meglio e infine coordini gli sforzi e le iniziative in modo organico. Se ne parla da anni e anni, ma non si vede nulla all’orizzonte”.
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