Sicilians
«Coi pupi antimafia restituisco ai siciliani memoria e orgoglio»
Un teatro del popolo rivolto al popolo, che aveva perso il suo pubblico e che, con Angelo Sicilia e i suoi Pupi antimafia del Mops (Marionettistica popolare siciliana), ha ritrovato la sua essenza in un rinnovato impegno sociale che si è espresso attraverso un nuovo repertorio. Un’avventura che va avanti dal 2001 e per il quale, la settimana scorsa, il regista ha ricevuto il Premio Livatino, ennesimo riconoscimento dell’impegno civico del Teatro dei pupi antimafia.
«L’iniziativa dei pupi antimafia – racconta Angelo Sicilia – nasce in realtà da molto lontano, perché, a dispetto di una laurea in Economia, iniziai a occuparmi del teatro di Pupi agli inizi degli Anni ‘90: collaboravo infatti con il Museo internazionale della marionetta di Palermo, occupandomi di un progetto di ricerca sulla storia dell’Opera dei Pupi nella Sicilia Occidentale». Amara la constatazione scaturita da queste ricerche: «Mi resi conto che l’Opera dei Pupi, come emergeva dalle interviste che avevo fatto ai maestri pupari all’epoca, era morta già negli Anni 50, e precisamente il 3 gennaio 1954 con l’inizio delle trasmissioni quotidiane della Rai e il conseguente spostamento del pubblico tradizionale dai teatrini dei Pupi ai luoghi in cui potevano vedere questa scatola diabolica». Secondo Angelo Sicilia, quindi, una delle prime vittime della televisione in Italia fu il teatro dei Pupi, perché «l’Opera dei Pupi nasceva e si reggeva come teatro del popolo, nato dal popolo e rivolto ad esso: quindi, il Teatro dei pupi senza il suo popolo, senza il suo pubblico, non esisteva più». Una consapevolezza mutuata dai grandi maestri pupari che, non avendo più il loro pubblico, si erano «dovuti adattare a fare spettacoli per i turisti», con un pesante impoverimento in termini di durata, messinscena e ricchezza di repertorio.
Angelo Sicilia sin da bambino era un grandissimo appassionato di Teatro dei pupi: assisteva alle rappresentazioni al Museo Pitrè, frequentava i teatrini e le botteghe artigianali a Palermo negli anni ’70, quando ancora c’erano tanti teatrini, vecchi costruttori di marionette o pittori popolari delle scene, sia pure ormai con un’impronta prettamente turistica. «Ma per me era sempre un mondo fantastico, eccezionale».
Una passione che ha portato Angelo Sicilia a pensare che qualcosa andava fatta per salvare questo mitico mondo che stava scomparendo: «Avevo quindi cominciato già in quegli anni a mettere su una compagnia che voleva riprendere gli spettacoli tradizionali usciti dal repertorio, in particolare il ciclo delle rappresentazioni sacre come la Passione di Cristo e la Natività, oppure lo straordinario e misconosciuto ciclo shakespeariano nel teatro delle marionette». Ciò che invece non interessava Angelo Sicilia, che dimostrò in questa scelta una sensibilità precorritrice dei tempi di almeno un ventennio, era «la storia dei paladini di Francia: mi sembrava già all’epoca qualcosa di obsoleto e antiquato, totalmente turistico. E poi mi accorgevo che il messaggio che davamo con questa forma di rappresentazioni era una lotta di religioni, con i cavalieri cristiani che lottavano contro quelli islamici: e io non me la sentivo più di ripetere sulla scena ogni giorno il rituale macabro del taglio della testa a un cavaliere moro solo perché aveva la pelle o una religione diverse dalla mia».
Per trovare un pubblico nuovo, Angelo Sicilia pensò anche di rinnovare il repertorio: «Non ho fatto altro che mettere me stesso, le mie ideologie e i miei pensieri dentro il Teatro dei pupi per farlo tornare ciò che era alle origini, cioè un teatro che fa pensare, riflettere, un teatro rivoluzionario, come del resto lo è tutto il teatro di figura popolare in cui le classi subalterne nella finzione scenica riescono sempre a prendere il sopravvento rispetto a quelle egemoni. L’eroe popolare, il fantoccio, il burattino, la marionetta riesce infatti sempre ad avere la meglio sul potere costituito. L’Opera dei pupi, essendo rivolta a un pubblico popolare, non ha bisogno di fronzoli o elucubrazioni mentali particolari per lanciare i suoi messaggi, ma è diretto. Il messaggio della marionetta, nella messinscena, deve entrare direttamente nella mente del pubblico che si deve immediatamente identificare con i personaggi. Ecco che allora ho deciso di cambiare il repertorio, stare al passo con i tempi, dare un segno che qualcosa in Sicilia può cambiare».
Nasce così il nuovo repertorio epico che unisce con un filo rosso, che è scritto nel Dna di ogni siciliano, anzi di tutti gli italiani, la storia dei Fasci siciliani, la lotta dei contadini per la riforma agraria, fino ad arrivare a chi nell’Isola ha combattuto contro la mafia, agli eroi della legalità: «Ritengo che da siciliani abbiamo il dovere di dire sempre da che parte si deve stare e di contrastare la mafia in tutti i modi, dando l’esempio ogni giorno. Ecco perché io a questi miei paladini – mi è costato molto, anche dal punto di vista affettivo – ho tolto le preziose armature, che rappresentavano ormai più dei sarcofagi, e li ho vestiti come noi, con le sembianze di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Peppino Impastato, Rosario Livatino, Pio La Torre, padre Pino Puglisi e di tanti altri, e ho cominciato a raccontare la loro storia, la storia migliore che i siciliani di oggi possono raccontare e, soprattutto, ascoltare, per ricordarsi da dove vengono e per non smarrire la via».
Da qui l’impegno itinerante nelle piazze, nei teatri, soprattutto nelle scuole: «Specie con i personaggi straordinari, ma meno conosciuti dalle giovani generazioni, come il giudice Livatino o Pio La Torre, devo instillare il dubbio e il desiderio di conoscenza nei ragazzi, che devono sapere da quale storia vengono e i cui modelli di riferimento non possono essere il capo dei capi della fiction televisiva, ma figure straordinarie come Pino Puglisi, Giovanni Falcone, o i sindacalisti Placido Rizzotto e Turiddo Carnevale, uccisi dalla mafia perché volevano liberare i nostri braccianti dalla schiavitù esistente ancora in Sicilia negli anni ‘50. Questo è il significato ideologico che sta dietro la nuova Opera dei pupi. L’Opera dei pupi è stata infatti per tanti anni il teatro del popolo, ma anche della parte peggiore del popolo: le prime file di alcuni teatrini di Palermo erano riservate ai capi della mafia del quartiere, molti modi di dire, come “pezzo da novanta” vengono dal Teatro dei pupi. Quindi, riproporre certe cose non ha più senso, se non inquadrate in altri percorsi culturali».
Si mantiene così la messinscena, la costruzione delle marionette in legno, la dinamica interna della compagnia con i ruoli ben definiti, ma ciò che cambia è il repertorio, nello spirito originario del teatro di figura, che è verità e ribellione. «In questo senso, noi abbiamo iniziato con il Teatro dei pupi antimafia, ma adesso stiamo andando anche oltre, verso spettacoli tradizionali nella messinscena, ma che parlano di immigrazione e lotta allo sfruttamento dei lavoratori». In poche parole, l’utilizzo del teatro tradizionale delle marionette come teatro sociale.
Straordinari i riscontri, in Sicilia e fuori: «Mi sono accorto che le storie di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non sono patrimonio dei palermitani, ma di tutti gli italiani, che si commuovono e piangono a Palermo, così come in Veneto, in Friuli o in Piemonte».
Ottimi anche i riscontri nelle zone più difficili in Sicilia, nelle periferie del degrado: «Ho avuto tante soddisfazioni nell’andare nelle periferie delle città siciliane dove si tocca di più il disagio, perché i miei pupi parlano lo stesso linguaggio di questi ragazzi e adulti che vengono a seguire i nostri spettacoli. Non la pensano magari come me, però non contestano nulla, perché parlano lo stesso linguaggio dei pupi che vedono e, in questo senso, riescono ad elaborare tutto quello che noi diciamo». Pur nella consapevolezza che il percorso culturale per arrivare a un rifiuto della mafia è ancora molto lungo: «C’è veramente da lavorare ogni giorno al fianco del mondo della scuola, trincea straordinariamente importante, specialmente in Sicilia».
Un successo inaspettato per lo stesso Angelo Sicilia che ammette che «quando ho iniziato, non ero molto sicuro di introdurre un repertorio nuovo così forte all’interno di un repertorio stagnante come quello tradizionale dei pupi. Non credevo che potesse durare, ma la nostra è diventata una realtà consolidata, anzi in crescita, con un repertorio in continuo aggiornamento».
La compagnia dei pupi antimafia ha due teatri: uno a Caltavuturo, («Dove abbiamo un nostro museo dal 2008»), e un’altra struttura, museale e teatrale, a Carini, all’interno del castello della baronessa, dove è raccontata, dal punto di vista della conservazione, l’evoluzione dei pupi di scuola palermitana, da quelli tradizionali ai quelli antimafia.
Tanti i riconoscimenti e le soddisfazioni, ma la più grande di tutte Angelo Sicilia confida di provarla quando «ogni volta che facciamo uno spettacolo, io guardo da dietro le tende del teatro le facce dei bambini, concentrati, con gli occhi e la bocca aperta per lo stupore nel sentire parlare quelli che io voglio diventino i loro eroi. Ogni volta che facciamo uno spettacolo succede questo: è il grande miracolo del teatro di figura».
Un seme che si getta nella speranza che poi germogli: «Infatti io dico sempre ai ragazzi: “Spero che anche uno soltanto di voi possa tornare a casa e raccontare lì questa storia che vi ho raccontato io. Allora sarò riuscito a raggiungere il mio obiettivo”».
Un modo diverso di impegno sociale che riesce a raggiungere meglio di altri l’immaginario e il cuore delle persone, perché «la Sicilia non si merita le tante cose brutte e le umiliazioni che subiamo ogni giorno: dobbiamo continuare ogni giorno a ricordarci da dove veniamo e chi sono stati i veri siciliani, straordinariamente coraggiosi, che abbiamo avuto».
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