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Cinzia Di Pietro varca le nuove frontiere per la procreazione assistita e la fertilità

Di Andrea Lodato |

Tutto il mondo scientifico lì, attento, concentrato, in silenzio ad ascoltare, scoprire, guardare capire. E, ovviamente, a condividere, perché così funziona nella grande comunità che studia, approfondisce, si impegna per provare a garantire salute, benessere, opportunità sempre nuove e sempre meglio definite al genere umano. E lì in Spagna, a Barcellona, è stata una professoressa, associato di Biologia applicata all’Università di Catania afferente alla sezione di Biologia e Genetica G. Sichel, del Dipartimento di Scienze Biomediche e Biotecnologiche, Cinzia Di Pietro, a conquistare un riconoscimento straordinario, il premio internazionale del GFI, Grant for Fertility Innovation, che da otto anni si svolge per iniziativa (e con le risorse anche) di Merck, un’azienda chimica e farmaceutica tedesca, con sede a Darmstadt, che fu fondata nel 1668 ed è una delle più antiche aziende chimico-farmaceutiche tuttora operanti.

La Merck organizza, quindi, da otto anni questo appuntamento internazionale, con la finalità di approfondire le conoscenze nel campo della fertilità. E’ un evento che ogni anno mette insieme i maggiori studiosi, ricercatori, esperti, strutture pubbliche e private che operano in questo settore della sanità verso cui è cresciuta negli ultimi anni l’attenzione dell’opinione pubblica, la richiesta di interventi, di terapie, di consulenze. Di soluzioni.

Ed ecco che a Barcellona, tra gli scienziati premiati, spiccano i nomi di due (sole) donne: una è l’irlandese Louise Glover, l’altra, appunto, la catanese Cinzia Di Pietro, La docente catanese entra in questo lotto speciale, frutto di una rigorosa selezione fatta tra 124 progetti arrivati per questo evento da tutto il mondo. Cinzia Di Pietro, per capirci, è una di quelle persone straordinarie che lavorano con grande passione, grande entusiasmo, conoscenze accumulate nel tempo e amore per quel che fanno e per le competenze che riescono a trasmettere ai loro studenti. Lavorano così e, quasi sempre, anche in silenzio, nell’ombra, là dove non si guadagna gloria (e manco soldi, va da sè), ma si raccolgono semplicemente soddisfazioni straordinarie.

Ecco, detto questo, Cinzia Di Pietro racconta: «Mi sono occupata per tanti anni nel mio lavoro di ricerca, di regolazione dell’espressione genica, in particolare in modelli tumorali. Poi, diciamo una quindicina di anni fa, ho scelto questa strada della biologia della riproduzione. Ed è diventata la mia strada, il mio impegno totale».

Un impegno che, ricorda la professoressa, si sviluppa oggi in stretta collaborazione con la dottoressa , e grande amica, Maria Elena Vento, responsabile del Laboratorio di Embriologia Servizio Pma dell’Azienda Ospedaliera Cannizzaro di Catania, con l’altro responsabile del servizio Pma, il dott. Placido Borzì che è ginecologo, e con il professor Paolo Scollo, specialista in Ginecologia ed Ostetricia e in Endocrinochirurgia, direttore della Divisione di Ostetricia e Ginecologia dell’Azienda Ospedaliera Cannizzaro di Catania e del Dipartimento Materno-Infantile della stesso ospedale. A Barcellona la professoressa Di Pietro ha portato gli sviluppi dei suoi studi sui microRNA, cioè quelle piccole molecole di RNA che mediano il passaggio tra DNA e proteine, regolando e modulando l’espressione genica.

«Sono, spiega l’esperta, piccoli frammenti, ma sono tanti, e sempre più ne scopriamo. Quando abbiamo completato il progetto genoma – ha raccontato già a Barcellona la professoressa Di Pietro dopo avere ritirato il riconoscimento e incassato tanti complimenti – abbiamo capito che solo il 2% del nostro genoma codifica per proteine, mentre oltre l’80 per cento, produce RNA non codificante, che regola però quel 2%. Il resto del DNA ha funzione strutturale». Partita da qua, la docente catanese con Maria Elena Vento, con una delle sue allieve, Rosalia Battaglia, e con l’embriologo specializzato in genetica medica, Simone Palini, ha avviato l’approfondimento degli studi, puntando oltre. Palini nel 2013 aveva vinto il Bob Edward prize scoprendo DNA nel fluido del blastocele, la cavità che si forma nell’embrione a 5 giorni di sviluppo.

«Nello stesso fluido – spiega Cinzia Di Pietro – ci sono anche i microRNA, questo significa che l’embrione li produce e li secerne nel blastocele e che la loro composizione potrebbe rivelare informazioni importanti riguardo la qualità. Cioè potrebbero diventare biomarcatori. L’obiettivo adesso è di raccogliere i fluidi di circa 500 campioni (il protocollo tecnico prevede che prima del congelamento degli embrioni ad uno stato che si chiama blastocisti venga prelevato un po’ di liquido, che non viene utilizzato altrimenti), analizzarli, identificare le sue specificità e poi verificare che tipo di risultato è stato ottenuto dopo l’impianto di quell’embrione. Vogliamo capire che differenza c’è, a livello molecolare, tra gli embrioni che si impiantano rispetto a quelli che invece non si impiantano – spiega ancora Cinzia Di Pietro – e andare oltre, per vedere se esiste una correlazione con il profilo cromosomico di quell’embrione. In futuro si potrebbero persino pensare a test di questo tipo, minimamente invasivi, rispetto alla diagnosi genetica preimpianto che si usa adesso». Proviamo a capire, uscendo un po’ dall’approfondimento strettamente scientifico, che cosa può migliorare con questa scoperta e con questi studi in corso, per tantissime donne che hanno bisogno di ricevere cure, assistenza, terapie, interventi che possano aiutarle per la procreazione.

«Intanto – ci spiega la professoressa Di Pietro – con questa tecnica si potrebbero accorciare i tempi necessari all’ottenimento di una gravidanza di successo in quanto si ridurrebbe il numero di tentativi di trasferimento embrionario in utero. Con la nostra sperimentazione, potremmo valutare prima quale è l’embrione con maggiore probabilità di impianto. E guadagnare tempo è chiaro che è importante, considerato che ci troviamo quasi sempre davanti a donne che hanno superato i 40 anni, dunque che hanno un orizzonte temporale per cui fare bene, ma fare anche più rapidamente, può essere un vantaggio». L’altro grande vantaggio, come ha già anticipato la professoressa Di Pietro, è legato senz’altro al fatto che si va incontro a tecniche meno invasive, una forma di garanzia ulteriore per le donne che decidono di sottoporsi a queste terapie, a queste sperimentazioni nella speranza che tutto vada bene e tutto vada in porto.

Catania, dunque, su questo campo è avanti. A Barcellona sul podio, se vogliamo, è salita anche un po’ di questa città, la parte che studia, che si impegna, che fa ricerca scientifica. Spesso a dispetto di situazioni logistiche non facili, e di un’attenzione non sempre alta da parte di chi dovrebbe coltivare e coccolare le risorse umane che ha la fortuna di avere e di non avere perduto, perché hanno deciso di restare qua, nonostante, come nel caso della professoressa Di Pietro, non siano mancati corteggiamenti e proposte da tante importanti comunità scientifiche internazionali. Lei sorride e a chi le chiedeva a Barcellona cosa avrebbe fatto del premio vinto, premio in denaro, ha detto che con i 150 mila euro del premio comincerà con il comprare i reagenti, «che costano tantissimo, e se avremo la possibilità assicureremo anche qualche borsa a giovani ricercatori. Abbiamo la fortuna di lavorare su quello che ci piace. Tutti insieme, perché da solo non fa niente nessuno». Il senso di squadra, dunque, che è quella cultura che spesso ci manca. Ma che, quando emerge, quando c’è, genera spesso risultati eccezionali. Come in questo caso, con la professoressa Di Pietro che condivide con tutta la squadra una medaglia che inorgoglisce anche una università, un gruppo di studiosi e scienziati, strutture ospedaliere. Una città, insomma.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA