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Antonella Favit, una neurologa catanese pioniera negli Usa della teranostica
È grazie a questa «donna siciliana alta 5 piedi (un metro e 50)», come scherza lei, anzi, come tiene a precisare, «grazie allo staff che ho avuto l’onore di dirigere quando ero all’Nih (National Institute of Health) Usa» se tutti possiamo usufruire di apparecchi come la Pet o la Spect per diagnosticare malattie neurodegenerative come l’Alzheimer e il Parkinson. Lei è la 53enne catanese Antonella Favit Van Pelt, residente a Boston, una delle maggiori esperte mondiali di teranostica, laureata col massimo dei voti in Medicina all’università di Catania, negli Usa dal 1990, sin dai tempi della specializzazione in Neurologia e del dottorato a Washington Dc tramite il premio internazionale Fogarty International, facendo ricerca di base sull’Alzheimer e le demenze al Nih col dr. Daniel Alkon e poi ricerca clinica sui disordini neuromuscolari e del movimento al Nih col dr. Thomas Chase. «Sono così entrata in contatto con una casa farmaceutica che si occupava di sviluppare diagnostici per immagini (Pet e Spect) nelle malattie neuromuscolari e nell’Alzheimer da cui ho ricevuto un’offerta non rifiutabile: dirigere lo sviluppo clinico della diagnostica per immagini nel sistema nervoso centrale applicata ai disordini del movimento e alle demenze. Col gruppo di ricerca che ho avuto l’onore di dirigere e coordinare siamo così riusciti a portare sul mercato il primo Pet Tracer per la diagnosi dell’Alzheimer».
Nel frattempo, Antonella Favit non ha mai smesso di vedere pazienti -. «Ho però ridotto il mio supporto a consulenze solo per casi molto specialistici» – e ha continuato la sua carriera nell’industria farmaceutica, portando sul mercato trattamenti per la depressione, il disturbo dell’attenzione, l’emicrania, neuropatie infiammatorie nel campo delle malattie rare del sistema neuromuscolare. Nel 2013, col napoletano Maurizio Grimaldi (con cui aveva lavorato al Nih e col quale condivide 5 brevetti), ha creato prima la compagnia Synaerion Therapeutics e poi l’affiliata Thera Neuropharma (il braccio operativo della prima) con cui sta cercando di sviluppare una nuova terapia per la Sla. Test oggi in fase di sviluppo preclinico in compagnie delle quali Antonella Favit è fondatrice e presidente del Consiglio di amministrazione. Nel fratttempo, sin dal 2009 Antonella Favit aveva costituito «un’altra compagnia, la StratMedica, che dà supporto sia a case farmaceutiche che a pazienti per lo sviluppo clinico di un buon numero di terapeutici: mi occupo solo di casi molto complessi per i quali contribuisco alla diagnosi e al piano terapeutico da consulente, attività svolta rigorosamente pro bono. Il mio sostentamento viene infatti dalla mia attività con l’industria e non mi sembra giusto farmi pagare da persone che soffrono di malattie degenerative molto importanti».
Insomma, una donna siciliana alta 5 piedi ma con grande cuore e notevoli capacità, affinate dagli studi isolani: «Devo dire – sottolinea – che rimango sempre molto impressionata dai medici che vengono dall’Italia. L’assetto, l’impostazione culturale scientifica e nozionistica che hanno gli italiani sono nettamente superiori a quelle dei giovani medici Usa».
Il discorso cambia nettamente, invece, quando si parla di industria e di imprenditoria: «Ho cercato di portare un po’ del mio business in Italia. Vero è che non mi sono impegnata più di tanto e che quando parlo di Italia per me significa Sicilia, però nella nostra Isola ho impiegato 6 mesi soltanto per incontrare i dirigenti di una banca, senza peraltro neanche riuscire a parlare con chi prendeva decisioni. Qui negli Usa compagnie piccole come la mia hanno invece facilmente l’opportunità di parlare con investitori privati che rispondono immediatamente. In Sicilia c’è un problema di accesso ai potenziali finanziatori, che precede persino l’aspetto burocratico al quale infatti non sono neanche arrivata. Qui se sei un giovane imprenditore (di qualsiasi ramo) che ha un’idea, vai su Google e trovi una marea di investitori che cercano visibilità. In Sicilia dove sono gli investitori?». Anche se, a onor del vero, i primi finanziatori delle compagnie di Antonella Favit sono stati 5 catanesi…
Non sa se definirsi un cervello in fuga, Antonella Favit: «Io sono una persona che aveva in mente un obiettivo: fare una certa carriera, diventare un medico specialista in malattie neuromuscolari, non soltanto da un punto di vista clinico, ma soprattutto nella ricerca. Sono andata al Nih perché non c’erano opportunità di formazione in Italia 30 anni fa nel campo della teranostica, tanto meno a Catania all’epoca, anche se io devo tutto al mio internato in Farmacologia con il prof. Umberto Scapagnini e a quello in Neurologia con il prof. Francesco Nicoletti, dove ho ricevuto impostazioni validissime».
Però, more solito, l’Italia forma benissimo i giovani e poi se li fa scappare: «Io credo che l’Italia non offra una visione a lungo termine. Il nostro Paese propone sì agli specialisti di tornare, ma su una base di incertezza sulla quale non si può costruire un progetto a lungo termine. E la stessa cosa vale per l’imprenditoria: anche in quel caso, in Italia prevale la mentalità del ritorno immediato. Qualche tempo fa, a un congresso internazionale sulla Sla ho incontrato l’allora ministra Lorenzin. Ci hanno presentate, mi ha chiesto cosa stavamo facendo e, appena ha sentito che eravamo a livello di ricerca preclinica, ha troncato il discorso. Che un ministro rigetti il fatto che ci sia una opportunità a livello preclinico, è inconcepibile. In Italia non si riesce a capire, cosa che invece negli Usa capiscono benissimo, che le persone intelligenti hanno obiettivi e non si accontentano del contingente. Quindi il problema non sono tanto le risorse e i cervelli in fuga, ma quali opportunità offre lo Stato italiano per materializzare quegli obiettivi».
Forte della propria esperienza, Antonella Favit non può che consigliare allora ai giovani «di non spaventarsi, perché la paura è una limitazione, una palla al piede che tiene giù. Anche per questo dico sempre a mio figlio 19enne che c’è sempre una soluzione a tutto: se non l’hai trovata è perché non l’hai ancora pensata». Certo, come per tutte le persone lontane dalla Sicilia, ad Antonella Favit manca «tutto dell’Isola: ecco perché continuo a tornare, ecco perché avevo cercato di portare in Sicilia la mia impresa. Mi mancano l’aria, le persone, i rapporti, il modo in cui la gente si relaziona, il fatto che tutti si facciano i fatti tuoi, il potere organizzare una cena all’ultimo minuto. Mi manca insomma la socialità. E poi il cibo: io mi porto tutto dall’Italia, ho pure l’acqua di arancia dalla Sicilia per farmi i cannoli». Di contro, a non mancarle per nulla è «il disfattismo, questa nostra attitudine ancestrale, storica e culturale». Perché il percorso non è stato per nulla facile: la maggiore difficoltà, che poi si traduce anche nella più grande soddisfazione per avere saputo costruire qualcosa nonostante tutto, è stata quella di «essere una ragazzina siciliana alta un metro e mezzo, di 50 chili, senza appoggi. Avevo però una personalità molto forte. Sono una donna, per giunta siciliana, piccolina, che fa l’amministratore delegato, che fa il presidente del Consiglio di amministrazione, quindi devo dimostrare sempre che sono più brava, più preparata, più intelligente, più furba, che ho più visione, insomma tutto più, più, più, più. Però qui c’è la possibilità di riuscire. Negli Usa l’unico valore che conta sono i soldi: la meritocrazia non è dunque legata al fatto di essere bravo, ma al fatto che qualcuno che vuole fare soldi vede che ti può sfruttare. Se qualcuno si rende conto che sei un valore che può fargli fare soldi, l’opportunità ti viene data».
Ma il progetto resta quello di tornare a Catania: «Molto probabilmente ci tornerò, ma come medico, per concretizzare le mie conoscenze e offrire un’opportunità ai pazienti. Tutto quello che so, il mio bagaglio culturale voglio metterlo a disposizione dei pazienti e della mia terra».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA