Un riconoscimento alla potenzialità della ricerca sull’Alzheimer che sta conducendo in Texas e al proprio curriculum: il biologo 28enne Pietro Scaduto, di Bagheria, ha vinto recentemente un premio negli Usa, dove sta effettuando un doppio dottorato (uno internazionale – tra Italia e Stati Uniti, col quale ha avuto l’opportunità di andare in Texas – e uno americano con la stessa università dell’Utmb Health di Galveston). Il tutto dopo la laurea triennale in Biologia a Palermo (polo di Trapani) – con un’esperienza Erasmus di un anno a Madrid e di 4 mesi da vincitore di borsa di studio a Malta – e la specialistica in Scienze biomolecolari e cellulari a Ferrara; quindi il rientro a Palermo per un internato in Anatomia al Policlinico e infine i due dottorati. Ed è proprio con quello americano che sta portando avanti questa ricerca con il gruppo del prof. Agenor Limon.
«Questa ricerca – spiega Pietro Scaduto -, attraverso lo studio delle sinapsi umane da pazienti che in vita avevano l’Alzheimer (e che hanno donato i cervelli alla ricerca), cerca di capire quali sono le cause delle malattie neurodegenerative. In parole semplici, estraiamo le sinapsi dal tessuto cerebrale morto e, reimmettendole in un sistema vivo (nel nostro caso le uova di rana), le riportiamo in vita e ne registriamo l’attività elettrica per capire cosa c’è di diverso tra le sinapsi dei pazienti con l’Alzheimer e quelle di persone sane. Un primo passo fondamentale per sviluppare una terapia. L’ipotesi di partenza è che le sinapsi dell’Alzheimer non riescano a bilanciare nel cervello eccitazione e inibizione, funzione fondamentale per processare le informazioni, ricordare, attuare operazioni cognitive. Nel momento in cui c’è una ipereccitabilità o una ipoeccitabilità, le nostre funzioni cerebrali non funzionano più correttamente».
Un altro cervello siciliano, dunque, all’estero, dopo studi italiani rivelatisi molto validi, come sottolinea lui stesso: «Palermo secondo me è una buona università, soprattutto perché ho studiato a Trapani, il che consentiva un rapporto col docente molto più diretto rispetto a Palermo, dove ci sono molti più studenti». Una scelta rivelatasi strategica – quella di Trapani – anche se effettuata per il più banale motivo di volere «iniziare a vivere da solo quando ho finito le superiori». Un cervello che però non si sente in fuga: «Secondo me, è giusto lo scambio di persone tra Paesi diversi: ciò consente di conoscere altre realtà e tipologie di studio. Se io mi occupo di Alzheimer e di studiare l’eccitabilità delle sinapsi, vado nel posto al top al mondo su questo tipo di ricerca. Come qui a Galveston, dove faccio un dottorato molto competitivo. La mobilità è una cosa giusta, il problema è che non si aiutano i ricercatori a tornare in Italia.
L’America è sicuramente uno dei posti migliori al mondo per fare ricerca; anche in Europa ci sono ottimi centri come in Svizzera e in Svezia. In Italia stessa si fa della buona ricerca, però nel nostro Paese i ricercatori restano per tutta la vita nello stesso laboratorio, mentre la dinamicità è invece caratteristica degli Usa dove, appena passi più di 2 anni nello stesso laboratorio, vieni visto come uno che non riesce a integrarsi in nuovi ambienti. E il sistema americano a me piace molto». A maggior ragione in Texas dove, come spiega Pietro Scaduto, «si vive bene: le persone sono amichevoli, ci sono città molto carine e la vita non è cara, appena più alta rispetto a Palermo ma simile al Nord Italia».
Si allarga così il gap tra l’Italia – che poco o nulla fa, tra carenza di finanziamenti e sprechi, per non fare fuggire i cervelli o per attirarli – e il resto del mondo: «I ricercatori non vengono in Italia perché manca una politica di attenzione al mondo della ricerca, scarseggiano i finanziamenti e non si investe su questo settore, che è invece quello che fa progredire i Paesi. La ricerca, infatti, non è fine a sé stessa ma produce ricchezza. Il problema è che dà frutti sul lungo termine. In Italia, invece, c’è una politica non lungimirante, tesa soltanto a raccattare nell’immediato i voti». Il che si traduce in una maggiore difficoltà «nel Belpaese a fare ricerca, anche se i ricercatori italiani si ingegnano e riescono a ottenere risultati pure con pochi fondi. Sicuramente in questo siamo bravissimi, però per certe cose non riusciamo più ad essere competitivi».
Un peccato doppio, considerando che «usciamo bravissimi dall’università, anche se ci manca tutta la parte pratica: inizialmente, ci mettiamo quindi un po’ di più rispetto agli altri per essere competitivi nel lavoro perché ci manca la pratica, ma una volta che l’acquisiamo, abbiamo una marcia in più, perché l’aspetto pratico si può sempre imparare con il tempo, mentre acquisire le basi teoriche in seguito è più difficile».
Certo, anche fare il dottorato negli Usa non è semplice: «È un sistema che corre tantissimo, non hai tempo per altro, c’è un elevato stress, ma alla fine si diventa molto più forti». E, se fai una buona ricerca, «vieni premiato. Inoltre qui c’è la possibilità di parlare con grandi scienziati in maniera costante, sono tutti disponibili. Non c’è una separazione tra il prof che ha le idee e lo studente che è il braccio. Il mio professore mi coinvolge nelle scelte, abbiamo costruito insieme il laboratorio e collaboriamo continuamente scambiandoci idee e opinioni».
Difficile, con queste premesse, pensare al rientro in Sicilia: «Io ritornerei – spiega -, però con delle garanzie forti, nel senso che non torno per due anni per andarmene poi di nuovo. Se torno, è perché ho assicurata in Italia una buona posizione. Il problema è che in Italia le stesse persone restano nello stesso laboratorio per anni, quindi diventa più difficile reinserirsi in questo sistema. E qua (l’università di Galveston riunisce una nutrita comunità italiana, ndr) la pensiamo tutti allo stesso modo: senza una buona posizione in Italia, non torniamo. Probabilmente chi lo fa, è spinto da un affetto in Sicilia, ma dal punto di vista professionale è un tornare indietro, perché sappiamo che, quando ti offrono un posto o un contratto di uno o due anni con una certa paga, trovare poi un altro contratto sarà un terno al lotto, e comunque bisognerà lottare per trovarne uno. E io personalmente non voglio lottare per lavorare».
Pur attanagliato dalla nostalgia «degli affetti, della famiglia, degli amici, del mare e del cibo, anche se devo dire che apprezzo la carne texana», ma senza rimpianti per «la mentalità siciliana, la sporcizia per le strade, la mancanza di senso civico e la scarsa consapevolezza di avere dei doveri nella società» che purtroppo ci contraddistinguono. E forse, di questi difetti nostrani è più facile rendersi conto quando si va all’estero e si conoscono realtà diverse.
Tra i progetti del dottorando bagherese, quello di tentare di riunirsi con la fidanzata Claudia – anche lei di Palermo, collega impegnata pure nello studio dell’Alzheimer e conosciuta a Galveston – oggi post doc ad Harvard: «Vorrei fare un colloquio lì, visto che credo che al suo prof piaccia quello che faccio. Però volevo anche provare qualcosa in Italia e in Europa per avvicinarmi a casa».
Infine, un consiglio ai coetanei giovani: «Fate ciò che vi piace, perché solo così si può riuscire ad avere soddisfazioni nella vita. La fortuna più grande è infatti lavorare facendo qualcosa che si sarebbe fatta persino gratis».