Pochi, stanchi e malpagati, la solitudine dei medici “qualunque”: «Ma voi lavorereste così?»

Di Carmen Greco / 23 Novembre 2018

CATANIA – I medici ospedalieri sono tornati oggi ad incrociare le braccia. E lo sciopero nel settore del Servizio sanitario nazionale è una di quelle proteste che i cittadini digeriscono male, più che in qualsiasi altro settore della vita pubblica.  Ma quali sono le ragioni di questo sciopero? Risorse insufficienti e rinnovo dei contratti dell’area medica le punte dell’iceberg. Al di là delle motivazioni sindacali, abbiamo voluto chiederlo ad uno di loro che, fuori dai denti, ci ha raccontato le difficoltà professionali di una categoria sempre più deprivata. Non è un barone della medicina, non è uno specializzando, non è un “luminare” da 300 euro a visita senza fattura, non ha padri, nonni e zii con il camice bianco, è uno di quelle “migliaia” di medici in trincea sulle cui spalle si regge quotidianamente il sistema di quel Servizio sanitario nazionale che molti Paesi ci invidiano  e che oggi rischia di implodere. Su sua richiesta abbiamo mantenuto l’anonimato (“Non vorrei andare incontro a provvedimenti disciplinari”), diciamo solo che è una chirurga ed ha superato i 50 anni.

Dottoressa, perché sciopera oggi?

«Perchè siamo sempre più poveri e sempre più vecchi. Da dieci anni non ci viene rinnovato il contratto, il nostro stipendio continua a scendere per le maggiori trattenute delle tasse e siamo sempre di meno a lavorare e si prevede che l’anno prossimo ci saranno 5.000 medici in meno in tutt’Italia e 20mila nel giro di tre anni perché saranno andati tutti in pensione. Senza medici che succederà? La “stretta” che c’è stata in questi anni ha causato un invecchiamento della categoria, la cancellazione di almeno 200mila posti letto in Italia e un carico di lavoro sempre maggiore sulle spalle di pochi».

È così che avete spiegato le ragioni dello sciopero ai vostri pazienti?

«Non è facile spiegare loro quanto il servizio sanitario sia in sofferenza, non abbiamo neanche il tempo per farlo. Se lei pensa che per una visita abbiamo giusto 20 minuti per vedere un paziente, visitarlo e mandarlo a casa, come fai a spiegargli che, così continuando, sta rischiando di perdere l’assistenza sanitaria pubblica?».

Perchè è quello che stiamo rischiando?

«Sì, perchè se si continua con questo  definanziamento e con i tagli alla sanità che sono stati fatti da 10 anni a questa parte è lì che arriveremo. Già vengono ridimensionati reparti, vengono chiusi ospedali… le persone lo vedono quello che cambia intorno a loro, ma non si rendono conto che è sulla loro pelle, non si rendono conto di quale sia il significato di tutto ciò. Tutto viene genericamente inglobato nel “tanto non funziona niente”, ma  probabilmente il vero significato di questa politica è costringere le persone a stipulare le assicurazioni private e, dal nostro punto di vista non è etico, perché è la stessa la Costituzione che prevede il diritto alla salute».

Lei da quanto tempo lavora in ospedale?

«Sono vent’anni, più nove anni per due specializzazioni».

E la situazione si è evoluta in meglio o in peggio?

«Di sicuro è peggiorato il rapporto con i pazienti, nel senso che il minor tempo a disposizione incide sulla relazione stessa con loro, cosa fondamentale nel nostro lavoro. Meno tempo, meno materiali e di scarsa qualità, meno farmaci, tutto viene considerati costoso e si risparmia su queste voci. È giusto che si raggiunga una calmierazione dei prezzi e che una siringa abbia lo stesso prezzo in tutt’Italia, ma non possiamo affidarci a ditte che forniscono materiale di scarsa qualità».

Ma gli ospedali sono delle Aziende, devono far quadrare i conti, devono fare utili…

«E qui sta l’errore più grande. L’”utile” in sanità non è misurabile economicamente, l’utile dovrebbe essere la salute prodotta. Noi non dobbiamo produrre un guadagno, non dobbiamo guadagnare più pazienti, il nostro obiettivo dev’essere la qualità del risultato, dobbiamo “produrre salute”, una buona salute».

Quanto guadagna se va a lavorare in un giorno festivo?

«Diciassette euro lordi, domenica, festivi, Natale e Capodanno, 20 euro per un turno di reperibilità di 12 ore e 50 per la guardia notturna in ogni giorno della settimana».

Quindi non li vuole fare nessuno…

«In teoria è così, in pratica toccano a tutti. I turni vanno coperti comunque, i malati ci sono anche a Natale e Pasqua. Il nostro lavoro non si può fermare è come una fabbrica che lavora a ciclo continuo e tutto questo è pesante,  per il singolo, per la stanchezza che si accumula, per la qualità della vita, senza una progettualità a distanza. Non sai se a Pasqua dell’anno prossimo potrai programmare una gita fuori porta perché la priorità è coprire il reparto».

Beh, non è che fate tutto questo per pochi euro al mese…

«Ma io ho studiato 15 anni, ho una laurea e due specializzazioni, ho investito in questo mestiere, ho fatto sacrifici, ho fatto la gavetta, non mi risparmio di certo in quello che faccio. Il mio lavoro mi piace ancora, solo che è diventato sempre più difficile. Ma lo sa che anche per una semplice visita in ambulatorio, arrivano pazienti già pronti a litigare, aggressivi e con la querela facile? I casi di aggressioni ormai non si contano più, soprattutto nei confronti delle donne medico. Ma voi lavorereste così? Ecco perché scioperiamo. Siamo pochi, con scarsi mezzi e mal pagati. In Europa i medici sono pagati molto di più e hanno a disposizione tecnologie che noi ci sogniamo».

Però non hanno il nostro servizio sanitario…

«Il nostro Servizio sanitario nazionale, che tra l’altro compie 40 anni, è un’eccellenza che non ha nessuno ed è per questo che va difeso e mantenuto gratuito, universale, solidale, equo. Vogliamo tornare a marcare le differenze tra chi, avendo più soldi, si potrà curare e chi no? Io penso che sarebbe una sconfitta enorme, per tutti».

Allora perché molti suoi colleghi non scioperano?

«Probabilmente molti, per il poco che prendiamo, meno di tremila euro al mese e i neoassunti 2.500 euro – dal neurochirurgo al medico di pronto soccorso – non se la sentono di perdere 100-200 euro in busta paga. Già parte del nostro stipendio va via per pagare l’assicurazione per rischio professionale, con l’impoverimento generale che c’è, non si possono pretendere adesioni bulgare. Altri, probabilmente, sono sfiduciati e non credono che le cose possano cambiare».

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Redazione
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