Catania – Ci sono tutti i colori, le lingue e l’amore del mondo in quest’ambulatorio affollato di bimbi e speranze. Ci sono pance con gli abiti a fantasia del Senegal o con la hijab delle bengalesi, pance di migranti che hanno attraversato il mare e di donne che, in questa città, combattono tutti i giorni. L’ambulatorio solidale dell’ospedale Cannizzaro di Catania ospita tutte. È l’unico in Sicilia ad occuparsi gratuitamente delle donne gravide e in difficoltà, un esperimento nato dalla dedizione di Fabio Guardalà, uno dei dirigenti medici del reparto di Ginecologia, diretto dal professore Paolo Scollo, e da un gruppo di ginecologi, ostetrici e infermieri che scende in campo per gli altri. Un ambulatorio che ogni venerdì mattina – giorno della Passione di Gesù – apre la porta a tutte, lasciando fuori razzismo e indifferenza.
La storia comincia nel ferragosto del 2012. Una nave con centinaia di migranti arriva al porto di Palermo con a bordo anche 21 donne incinta. La Regione chiama l’ospedale Cannizzaro. «Quante ne potete prendere?», chiede. «Tutte quelle che volete», risponde Guardalà che è di turno. «Negli altri ospedali non hanno posto», replicano dall’altro capo del filo. «Ammesso che non ne avessimo, meglio l’ospedale in barella che il molo». L’incontro è la scoperta di un mondo. «Vedere i migranti in tv non è come averli in corsia – continua Guardalà – Nei corridoi c’erano i vassoi con il cibo lasciato da altre pazienti e loro prendevano i resti come fanno gli animali quando catturano una preda e cominciano a mangiare guardandosi intorno. Avevano lo sguardo di un felino. Un dolore vedere che in una società in cui la sanità è largamente diffusa ci fosse invece tanto bisogno. Un dolore scoprire la tratta. Mi ha fatto riflettere che la Sicilia, terra di emigranti, non li accogliesse. La legge impone un certo numero di pazienti, certo, ma l’immigrato, spesso di colore e di religione diversi, è ancora visto come qualcuno che porta malattie e può togliere lavoro».
L’ambulatorio solidale è nato così, un luogo aperto e gratuito per chi ha più bisogno. Dove non servono documenti o permessi di soggiorno. Dove la vita è ancora la cosa più importante. «L’immigrazione ci spinge a superare barriere burocratiche e culturali. Cerchiamo di venire incontro alle donne, l’accesso è diretto e si fa tutto in un giorno, esami, visita, ecografia». Per visite ed esami non c’è copertura economica per l’ospedale. «Ma queste pazienti partoriscono qui, e per ogni parto la Regione paga una quota all’ospedale. E così i costi sono coperti». La folla multiculturale di donne, papà e bambini che ogni venerdì riempie l’ambulatorio ha fatto superare i mille parti l’anno al Cannizzaro, passato così a un secondo livello. «E questo ha portato un aumento della quota di sanitari e parasanitari, cioè un aumento di posti di lavoro per gli italiani – sottolinea il ginecologo – In più, sulla base dell’esperienza chirurgica trattiamo molti casi di ostetricia a rischio, siamo un riferimento del territorio». È quello che Guardalà chiama «fare bene per bene». «Perché il bene fatto va a tutta la comunità». E la generosità è contagiosa. In tanti regalano corredini, farmaci, latte, tutto quello che serve. Un progetto di accoglienza e di integrazione. «Una madre ben accolta sarà più disponibile all’incontro. Un bambino che nasce in una struttura che lo integra, non si sentirà un immigrato, ma parte del tessuto sociale».
Non tutto è stato facile in questi anni. «Molti si sono innamorati di questo progetto, tutti erano volontari. Ma il lavoro è aumentato notevolmente, da 12 prelievi si è passati a 100. C’è stata una resistenza del personale. Per chi ha già un carico di lavoro non è facile trovare spazio nei propri ritmi e per tanti anni». Per svolgere questa attività lui sottrae tempo alla famiglia, «non ci sarei riuscito senza la comprensione di mia moglie Adriana». L’azienda ha poi istituzionalizzato l’ambulatorio «e questo ci ha permesso di avere una équipe fissa». Con due ginecologi strutturati sempre attivi, Guardalà e Alessandra Coffaro, ai quali oggi si aggiungono Elisa Minutolo e Cristina Teodoro.
Colpiti dalla sindrome “prima gli italiani”, tanti catanesi si sono sentiti “loro” i non integrati. «La legge non prevede questo tipo di ambulatori, per esempio, per i disoccupati e questo ha creato un po’ di confusione e qualche problema». Superati inserendo alcune fasce sociali: minorenni, madri di almeno tre figli, donne con disagio, sieropositive. Una mattinata in ambulatorio è un’altalena di emozioni e di storie. Omar, tunisino, in Italia dal 2004, accompagna la moglie e il figlio di 20 mesi. «Ci siamo trovati bene, è andato tutto bene». Mben è nata in Senegal ed è incinta di 4 mesi, con lei c’è la sorella che ha tra le braccia un bambino di un anno e mezzo, anche lui nato al Cannizzaro, Vanida e Sen vengono da Mauritius e per loro è la prima visita. C’è anche una coppia mista, lui della provincia di Catania, lei filippina incinta di 4 mesi grazie al centro di fecondazione assistita dell’ospedale. «Sono tutti in gamba, molto professionali – dicono – e c’è tanto rispetto per le persone, conta anche questo». Dal telefono cellulare di Guardalà spunta il video di una donna, con una neonata in braccio. «Grazie dottore», sussurra con accento straniero. «Una cingalese che era incinta di 2 gemelli, alla premorfologica ha scoperto che uno dei due bambini aveva una grave malformazione, assenza di un arto e addome aperto. È molto cattolica e non ha voluto un’interruzione selettiva, al settimo mese il feto è morto in utero senza compromissione dell’altro, una bambina, che è nata sana». Le storie sono tante, infinite. Perché ogni volta, ogni volta che nasce un bambino, è un miracolo. Una paziente russa, con tre figli e una situazione di disagio, ha scoperto di aspettare due gemelli quando non poteva interrompere la gravidanza. «Le abbiamo spiegato che dare in adozione in anonimato è facilissimo. Dopo aver partorito ha voluto vedere i bambini. Non ce l’ha fatta, li ha tenuti». Finale diverso per un’altra donna dell’Est: «Ha abbracciato e baciato suo figlio e lo ha lasciato in adozione».
Guardalà da tempo accarezza l’idea di una solidarietà che ancora di più guardi agli ultimi, ai bisognosi, alle periferie. «L’ospedale ha i suoi ritmi, le ferie, i turni, la chiusura a Natale o a Ferragosto. Per questo l’ambulatorio solidale ha aderito al progetto dell’Ufficio Pastorale della Salute dell’Arcidiocesi di Catania, diretto dal sacerdote Mario Torracca. Un centro polispecialistico dell’Opera assistenza infermi che offrirà gratuitamente assistenza medica e infermieristica a chi ha difficoltà economica e sociale per accedere alle cure, poveri, migranti, senzatetto». Un ambulatorio, all’interno dell’ospedale Santa Marta, al quale hanno già aderito 50 camici bianchi, 10 infermieri e 50 volontari. «Nasce con la doppia finalità: curare e prendersi cura dello spirito. La chiesa non prega soltanto, ma è attiva, offre un sostegno reale all’integrazione. Gli ospedali si stanno allontanando dal centro, una zona dove vivono molti immigrati e molte fasce disagiate. Siamo un gruppo motivato, con 7 ostetriche e 8 ginecologi. E l’ambulatorio può restare aperto anche il 15 agosto. Per trovare medici, cibo, vestiti, conforto. Per ritrovare umanità».