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“Prosciolto in contumacia” Se il diritto non fa l’indiano

Di Mario Barresi |

Ragusa – E ora? La lista delle persone che dovrebbero scusarsi è infinita.Eppure guardiamo la vicenda da altro punto di osservazione: quello delle persone a cui chiedere scusa.

Il principale destinatario si chiama Ram Lubhaya, 43 anni. Ma sarà alquanto improbabile che potrà ricevere le scuse, semmai qualcuno volesse domandargliele. Perché non si sa più dove sia andato a finire.

Lubhaya, chi è costui? Il suo nome l’avevamo quasi dimenticato. Tutti. Perché è ormai passato alla storia come «l’indiano di Scoglitti». L’uomo, accusato di aver tentato il rapimento di una bambina di cinque anni, lo scorso 16 agosto sul lungomare della frazione marinara di Vittoria. Poche ore dopo il fermo, Lubhaya (irregolare, perché senza permesso di soggiorno da 10 anni) fu scarcerato. Seguì un putiferio giuridico, politico e mediatico. In quei giorni si moltiplicarono i giustizialisti da Bar dello Sport. Soprattutto sui social network: pericolose armi di distruzione di massa, per maneggiare le quali ci vorrebbe una licenza rinnovabile dopo esami periodici di salubrità mentale.

Politici in costume da bagno, direttori di giornaloni nazionali, opinionisti à la carte, polemisti da mischia. Una gara a chi picchiava di più. Contro la pm di Ragusa, Giulia Bisello, “colpevole” di aver liberato il rapitore. Pericoloso, prima ancora che presunto. Ubriacone, extracomunitario e pure clandestino. E, per responsabilità oggettiva (o magari per invidie e conti in sospeso) tutti addosso al procuratore Carmelo Petralia, “reo” di difendere l’operato della collega. Poche parole, in quei giorni di chiacchiericcio appiccicaticcio, uscirono dalle bocche di Petralia e Biselli. Quattro, in tutto: «Abbiamo applicato la legge».

Ebbene, Lubhaya ha chiuso i suoi conti con la giustizia italiana. Sentenza di non luogo a procedere, come riporta il Giornale di Sicilia, emessa mercoledì da gip di Ragusa, Giovanni Giampiccolo. La richiesta di proscioglimento – qui, nell’intimità di un’aula di un tribunale assediato dalle telecamere ingolosite dal processo a Veronica Panarello e incuriosite dalla condanna del primario che operò Papa Wojtyla – è stato lo stesso sostituto procuratore Biselli. «Uno dei magistrati più preparati che abbiamo avuto a Ragusa», la descrivono colleghi e avvocati.

«Abbiamo applicato la legge», dice – in punta di piedi – lei. E sempre quelle quattro parole, le stesse dell’agosto di fango e di fuoco, pronuncia Petralia. Che, pur avendo macigni da togliersi dalle scarpe, resiste alla tentazione: «Non si tratta di proscioglimento nel merito», ammette. Perché il presunto rapitore indiano è stato espulso dal territorio italiano. «E l’espulsione coatta è stata comunicata, eseguita e verificata», spiega il procuratore. Sulla sua scrivania i ferri del mestiere: il comma 5/quater della Bossi-Fini che regola la complessa fattispecie, la «causa di improcedibilità atipica» definita dalla Corte costituzionale in casi come questo. «Una formula di rito». Né più, né meno. Onestà intellettuale, prima ancora che giuridica: l’indiano non è stato prosciolto perché c’è la certezza che non fosse un aspirante rapitore, ma semplicemente perché è stato già espulso.

Allora bisogna ancora aver paura di questi folli magistrati che – dicevano, tra gli altri, Calderoli, Meloni, Gasparri e Santanchè; giusto perché Topo Gigio era in ferie – hanno osato liberare un ladro di bambini? La risposta è no. E sta dentro le quattro (noiose) parole: «Abbiamo applicato la legge». Al momento della mancata convalida del fermo: secondo il codice di procedura penale (e non per libero arbitrio del pm Bisello, oggetto di insulti sul web e di minacce anonime) non c’erano i presupposti. Così come nel non luogo a procedere: l’espulsione è causa di improcedibilità.

Certo, è un peccato che questo processo non si terrà. Perché magari, come emerso dalle indagini, avremmo scoperto che quello dell’indiano non era un tentato rapimento. «Il reato da contestare sarebbe quello di “presa di bambina in braccio”, ma siccome il nostro codice non lo prevede…», ironizzò Petralia su Repubblica Palermo.

Non sapremo mai come sarebbe finita. «Resta solo il rammarico – dice Biagio Marco Giudice, fedele avvocato dell’indagato rimpatriato – di non potere informare il signor Lubhaya, che si è sempre dichiarato innocente, sarà difficile per lui sapere che non si è proceduto nei suoi confronti».

E nessuno potrà chiedergli scusa. Così come nessuno, ieri, s’è nemmeno vagamente preoccupato di abbozzare un seppur tardivo mea culpa per l’aggressione ai magistrati ragusani. Nessuna sorpresa dai parolai che sotto l’ombrellone sono sempre connessi su Facebook, pur senza sfogliare un Bignamino di procedura penale. Silenzio anche dal governo. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, anziché la «solidarietà» auspicata da Petralia, fece arrivare gli ispettori; il titolare del Viminale, Angelino Alfano, s’affrettò a espellere l’indiano irregolare. E alo stesso governo, ieri, il procuratore riserva parole tutt’altro che rancorose: «Se il sistema funzionasse sempre con l’efficacia dimostrata in questo caso, si eviterebbero molti problemi». Una lezione di stile.

Come quella di Giorgio Assenza – deputato regionale di Forza Italia e presidente dell’Ordine degli avvocati di Ragusa, dunque per doppia definizione tutt’altro che giustizialista – quando ammette che «questa storia è stata più mediatica che giudiziaria», denunciando «una desolante mancanza di conoscenza dei fatti, soprattutto da parte di chi ha fatto speculazione politica».

Chissà che ne pensa Lubhaya. Assolto in contumacia. A sua insaputa.

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