Modica (Ragusa) – Un passo alla volta. Dai faticosi 2.000 che poteva fare nei primi giorni. Un passo dietro l’altro per tornare a una vita normale. È una storia di salvezza e di speranza quella di Sveva, 13 anni a gennaio, di Modica. Occhi, capelli e sorriso chiari, la giornata tra casa, scuola, musica e sport. Un sobbalzo del cuore e nello spazio di un battito la sua esistenza cambia, «precipita in un tunnel, un percorso drammatico e improvviso», come racconta adesso il papà. Sveva scopre di avere un disturbo cardiaco caratterizzato da un’anomala attività degli impulsi elettrici del cuore. Viene operata e salvata all’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma e parte della sua storia è ripercorsa da “Dottori in corsia”, il programma con Federica Sciarelli su Rai3. Ma la sua odissea comincia prima, e denuncia un sistema sanitario che spesso fatica nelle terapie, nelle tecnologie, nell’umanità.
«Tutto inizia il 25 marzo 2019, quando Sveva si sente male a scuola, ha il cuore in gola, respira a fatica – racconta papà Vincenzo, 59 anni, insegnante -. In ospedale, a Modica, non colgono subito l’urgenza, un pediatra mi dice che forse è cattiva digestione. Un cardiologo però trattiene la bambina, una cardiologa le mette l’holter e dopo tre giorni finalmente le viene fatta l’ecocardio che rivela una situazione drammatica: una miocardiopatia dilatativa del ventricolo sinistro, con uno scompenso mitralico severo. Ci mandano all’Ismett di Palermo, il responso è che per questo tipo di patologia non c’è cura, è necessario il trapianto. Siamo scioccati, la bambina non aveva mai manifestato alcun sintomo, mai avuto problemi, non esiste nessuna familiarità. Il trapianto, con le sue conseguenze, ci sembra incredibile». La malattia travolge la vita della famiglia, di mamma Rosalinda, anche lei insegnante, della sorella più grande Giordana. «Ci si trova dentro un tunnel buio, i medici indirizzano, si capisce solo l’urgenza». Sveva resta per due mesi all’Ismett «senza poter uscire, senza poter neanche aprire la finestra». La situazione peggiora. «C’è una pre-eccitazione ventricolare, compare un impulso anomalo. Chiediamo un consulto con un elettrofisiologo». Viene spostata al Civico di Palermo dove l’elettrofisiologo tenta una termoablazione, poi una crioablazione ma gli interventi non riescono. «Ci dicono che l’operazione si può ripetere dopo due anni. Ritorna all’Ismett, viene messa “in sicurezza” con un Life-Vest, un giubbotto con il defibrillatore». Il padre riprende «la via crucis di consulti, di incontri. Grazie all’interessamento di amici e di specialisti romani veniamo informati del reparto di eccellenza del Bambino Gesù. Una collega di mia moglie ci segnala il dottor Fabrizio Drago, “un elettrofisiologo ca è mastru”, ma la bambina è intrasportabile, il volo militare ha una procedura complessa e dipende dall’ospedale». I medici dell’Ismett, tuttavia, ritengono che Sveva possa andare in auto alla visita di controllo del 20 giugno. «Quattro ore di strada all’andata e altrettante al ritorno. “E se ha una crisi che faccio?”, domando. “Tranquillo, è in sicurezza”. Al consulto racconto di aver letto di una cura immunologica. Il cardiologo mi guarda con un sorrisino di sufficienza, “ma dove l’ha trovata? Su internet?”. “Sì, ma si sperimenta al San Raffaele di Milano”. Sono scettici. Il primario conferma che l’unica possibilità è il trapianto».
I medici fissano l’appuntamento per il 4 settembre. «Per quella data, ho scoperto dopo, gli avrei potuto portare solo la foto di mia figlia – sussurra – Mi convinco che devo trovare presto un’altra soluzione: se può fare otto ore di auto, può andare in aereo a Roma il 24 luglio». In Sicilia sei in balia del caso, della fortuna. «Il 21 luglio Sveva si sente male, corriamo all’ospedale di Modica. Se quella sera avessi trovato un bravo cardiologo avrebbe ricoverato Sveva e non sarei partito. Siccome, grazie a Dio, non è stato così, mi ha rimandato a casa dicendomi che si era trattato di stanchezza».
Così si parte. Al Bambino Gesù «ci prendono per pazzi», racconta ancora. «“In Sicilia – ci dice un medico – avete una gestione sanitaria da pazzi, perché è pazzia lasciare andare in giro una bambina con il Life-Vest, non può riabilitare un cuore in queste condizioni”. Avevamo camminato sul bordo di un precipizio». Sveva viene ricoverata in terapia intensiva, la situazione è molto grave, ma i medici decidono di escludere per il momento il trapianto e di tentare un intervento di crioablazione. «Lavorano in équipe, hanno protocolli avviati da tempo, una grande tecnologia e soprattutto grandissima esperienza in questo settore. E poi un’attenzione, una cura, palpabile in ogni momento». Quell’umanità che è medicina. Sveva e i suoi genitori restano tre mesi al Bambino Gesù. Il 10 ottobre il dottor Drago effettua il rischioso intervento. La ragazzina entra in sala operatoria alle 8.30 e ne esce alle 15 circa. «Cosa si pensa? È talmente complesso, talmente estremo. Difficile spiegarlo, a parte le banalità: l’ansia, l’attesa, la palpitazione… Ma non è solo questo, è una sintesi esistenziale, una concentrazione di energie profonde, di pensieri che riassumono molte cose. Ogni genitore capisce benissimo, anche con le parole non dette, cosa significano quei momenti».
L’intervento ha risolto la disincronia del ritmo cardiaco che scompensava il cuore di Sveva. La gioia si mescola alla rabbia. «Rabbia e amarezza perché i medici in alcune occasioni non hanno capito la gravità della situazione – si sfoga – al momento del ricovero a Roma c’era il 75% di rischio di mortalità entro l’anno e all’Ismett ci avevano dato una visita dopo mesi. Siamo stati all’ospedale di Taormina, altro polo d’eccellenza, per fare alcuni esami, ma poi ci hanno rimandato a casa senza assumersi alcuna responsabilità. Se questa è l’eccellenza, immaginiamo lo standard». E poi la “cura”. «Un cardiologo ha detto a un collega: “praticamente campa per un filo, per questa compensazione”. Ma come si fa a parlare così davanti a una ragazzina?». Ma Sveva è un’adolescente combattiva. «Ha reagito in modo straordinario, ha mantenuto il buonumore. Sono esperienze che lasciano il segno». Anche dentro mamma e papà. «L’arroganza con cui alcuni si sentono sempre a capo della diligenza, i fondi sperperati in azioni inefficaci, la logica del business… c’è la melma sotto e si rischia di sprofondare – accusa – Il problema è politico e sociale, è un sistema incancrenito». In quell’intervento hanno creduto sempre «anche quando ci rispondevano “ma la letteratura medica dice…”. Per disperazione abbiamo passato sette mesi a documentarci, studiare, portare le cartelle in giro. Ma chi non ha tempo o mezzi o cultura si affida al medico. E se ti dice che quella è la soluzione, che fai? “U rissi u dutturi“. L’incertezza corrode, non puoi sbagliare con la vita di tua figlia».
La vita, passo dopo passo, ricomincia. «Nelle lastre iniziali il cuore toccava una costola, dopo due mesi si era ridotto di un centimetro. Dal trapianto siamo passati a una miocardiopatia gestibile con i farmaci. La funzionalità contrattile ora è al 43%. Combattiamo ancora. Sveva è tornata a scuola, esce da sola con le compagne, i 2.000 passi al giorno sono lontani, adesso sono 9.000. Abbiamo una speranza e camminiamo avanti, verso la meta: la guarigione completa di nostra figlia».