Augusta. Se ci fosse ancora il caro vecchio Totocalcio sarebbe una partita da tripla, quella che si gioca all’ombra delle ciminiere – sogno e incubo, speranza e tradimento, lavoro e morte – del Petrolchimico, che qui don Palmiro Presutti continua a esorcizzare più col cuore che con l’acquasanta.
Oggi ad Augusta arriva pure Matteo Salvini a rilanciare, in chiusura, la corsa del leghista Massimo Casertano. Il candidato sovranista-bellissimo (con lui anche Fratelli d’Italia e Nello Musumeci, che è già venuto a sostenerlo), fra i cinque sfidanti, sembra quello più attardato. Nonostante lo sforzo già profuso da Casertano, responsabile Urp della partecipata “Sostare” a Catania, per essere l’unico candidato di centrodestra-senza-centro, trampolino conteso dalla famiglia Forestiere (il padre Puccio e il figlio Pietro, ora in FdI), da sempre salotto nobile della gauche augustana. E ora arriva il Capitano, l’unico leader nazionale che in questa campagna elettorale “partiti free” ci mette la faccia. Destabilizzerà. Alzando, fra ultras e contestatori, la temperatura di una città oggi blindata e già ammorbata da un clima pesante.
Ci sono pure le lettere anonime, un classico, ad alimentare veleni e sospetti: l’ultima l’ha ricevuta Seby Pustizzi, assessore designato. «Lascia stare Carrubba e pensa alla tua famiglia», l’inequivocabile avvertimento a un altro candidato: Massimo Carruba, ex sindaco riemerso pulito dalla montagna di fango che l’aveva sepolto dopo lo scioglimento per mafia nel 2013. Per Carrubba, assolto nel processo per concorso esterno in associazione mafiosa e voto di scambio, torna a testa alta. Ma il vero “risarcimento danni”, per lui – avvocato, sostenuto da tre liste civiche in cui c’è una parte del Pd (senza simbolo) – sarebbe «ritornare a essere una città normale», con lui di nuovo alla guida. Non la pensa così Nicola Morra, presidente dell’Antimafia nazionale, che comiziando accanto a Cettina Di Pietro, sindaca del M5S votata da tre augustani su quattro al ballottaggio del 2015, propone una tesi negazionista: «Qua ad Augusta qualcuno non è stato prosciolto con formula piena per voto di scambio politico mafioso e quel famoso processo della Distrettuale antimafia di Catania è andato incontro a prescrizione per alcuni imputati per gravi reati», ha detto ricordando che il decreto di scioglimento «è ancora valido». Il sillogismo che infiamma la piazza e i bar: la città non è stata ancora “sanificata” dalla mafia. Carrubba si dice vittima di un «processo sommario in piazza» per «una storia che mi sono messo alle spalle, di cui porterò le ferite profonde io e la mia famiglia». Sotto il palco, ad applaudirlo, anche gli ultimi due sindaci di Siracusa: l’attuale, il calendiano Francesco Italia, e il predecessore Giancarlo Garozzo, proto-renziano di Sicilia. In difesa arriva il deputato dem Fausto Raciti: un «gesto bassissimo», Morra «non è all’altezza» della sua carica istituzionale.
L’aria è elettrica. Di Pietro ha denunciato di aver ricevuto pesanti insulti sessisti. Ma il nervosismo che emerge dal quartier generale grillino è sinonimo di consapevolezza che il mandato-bis non è facile. “La sindaca”, come tutti la chiamano, ha il merito di aver risanato un comune sull’orlo del baratro. Oltre 100 milioni di buco rattoppato, e adesso «lasciamo un bilancio sano per la prima volta». Tanto che lunedì scorso sono stati stabilizzati 84 precari, con una photo opportunity che in molti, compresi i grillini più ortodossi, hanno criticato per lo stantio retrogusto elettoralistico. Eppure a Di Pietro anche i suoi rinfacciano proprio il difetto opposto: un «brutto carattere», una propensione al “distanziamento” ben prima del Covid, in un quinquennio vissuto più a testa bassa fra le scartoffie anti-default che fra la gente. Una populista anomala, impopolare. Il M5S gioca una manche solitaria, senza alleanze civiche, e l’incantesimo magico del 2015 sembra essersi rotto. Governare è più complicato che fare le barricate e i tanti nodi irrisolti della città – primo fra tutti l’acqua potabile, che da mesi non arriva in centro storico – diventano “bollette” da pagare alle urne. Freddi, nei confronti di Di Pietro, i big pentastellati del Siracusano: avvistati i soli Filippo Scerra e l’angelo custode Pino Pisani; Luigi Di Maio, iper-presente in odor di vittoria cinque anni fa, stavolta non s’è visto e ci s’è dovuti accontentare del viceministro Giancarlo Cancelleri.
Mentre Carruba e Di Pietro si scazzottano sul ring, crescono vertiginosamente le quotazioni di altri due candidati molto meno litigiosi. «Sono loro i “prescelti” dai salotti della Augusta bene», maligna un vecchio saggio siracusano, osservatore fuori dalla contesa. Gli allibratori augustani, ipotizzando come improbabile (ma non impossibile) la vittoria di qualcuno al primo turno, danno però in prima fila i due “Giuseppi civici”. Occhi puntati su Peppe Di Mare, agente finanziario di 43 anni, gioventù fra parrocchia e Azione universitaria. Già pupillo di Enzo Vinciullo, ha studiato da sindaco con un percorso lungo e certosino. Consigliere circoscrizionale e comunale (nel 2015 fu il più votato), è stata l’anima di più movimenti civici, l’ultimo dei quali – “100 per Augusta” – l’ha incoronato candidato durante il lockdown. Di Mare ha messo in campo una (molto costosa, dicono) campagna elettorale all’americana, con l’appoggio di pezzi centrodestra – Forza Italia e centristi, ma anche leghisti “pentiti” – e quattro liste molto forti. «Il futuro di Augusta», è il claim, che attrae giovani e professionisti. Ma deve guardarsi dal “nuovismo” che arriva dal passato. E cioè dall’altro Giuseppe: Pino Gulino, «il sindaco che conosci». Perché lui, medico radiologo titolare di un rinomato studio, la fascia l’ha già indossata. Nel 1993, scelto dal consiglio, e poi con elezione diretta dal 1994 al 2002. Il secondo mandato s’interruppe per alcuni guai giudiziari. Che Gulino non nasconde, ricordando i 38 procedimenti, di cui una sola sentenza per corruzione passata in giudicato, che il medico moderato lega agli “antenati” del sistema Siracusa, secondo lui già in attività ben prima delle recenti inchieste sulle toghe sporche. In città hanno un bel ricordo degli anni della ricostruzione post-sisma quando – fra un’inaugurazione e l’altra – si conquistò l’affettuoso soprannome di “Pippo Piazzetta”. Un uomo di centro, per sua stessa ammissione, ma che riesce a catalizzare voti trasversali da chi lo ricorda come «un decisionista, uno che non si spaventava di mettere le mani nell’acqua calda». I programmi? «Quelli si comprano alla Buffetti», diceva Gulino in piena Prima Repubblica, ignaro del fatto che sarebbe stato di nuovo in campo, “costretto” anche a dover usare le diavolerie social per convincere i suoi concittadini a votarlo, un quarto di secolo dopo.
Twitter: @MarioBarresi