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Sicilia, il ricambio generazionale in politica è sempre tabù: se non basta essere giovani

Il rito edipico è rimasto un coiutus (politicus) interruptus. Fra eterne promesse che restano tali. E gli immarcescibili al potere

Di Mario Barresi |

Sarebbe sin troppo scontato citare Cicerone, quando nel De Senectute – immortale manifesto dell’arte di saper invecchiare – sostiene che «non con le forze, non con la prestezza e l'agilità del corpo si fanno le grandi cose, ma col senno, con l'autorità, col pensiero».

Così come rischierebbe di diventare fuorviante, seppur suggestiva, l’evocazione della Retrotopia di Bauman: incapaci di guardare al futuro con speranza e fiducia – è la tesi di fondo del filosofo polacco – preferiamo volgerci al passato per cancellare le paure.

Sì, perché in fondo la ragione per cui la politica siciliana (da sempre enfasi caricaturale di quella nazionale) non riesce a compiere il rito del ricambio generazione è molto più banale e meno cervellotica di come sembra. È la logica del branco. Dei “vecchi”. Che sanno fare squadra-asse-lobby fra loro. A differenza dei “giovani”. Che inneggiano alla rivolta e poi si fanno la guerra, cercando protezione dai soliti noti.

Due immagini su tutte. La prima è il cosiddetto «pranzo dei settantenni». Quello a casa di Raffaele Stancanelli (71 anni), in cui – assieme al coetaneo Raffaele Lombardo e a Gianfranco Miccichè (classe 1954: il “ragazzo” del trio) – s’è in pratica deciso di staccare la spina al 67enne Nello Musumeci, “reo”, fra l’altro, di aver annunciato nel 2017 di candidarsi per fare un solo mandato e oggi bramoso di riprovarci. In quella tavola imbandita c’era un convitato di pietra: Nino Minardo (44 anni), quarta punta del fronte dei No-Nello. Non invitato o renitente, non è questo il punto. Non c’era e basta. Quindi non ha ascoltato le perplessità (eufemismo) espresse soprattutto dal leader forzista, poi sceso in campo da aspirante governatore, sulla candidatura dell’astro nascente del salvinismo siciliano. E il diretto interessato, dopo aver letto i retroscena dei soliti cronisti cattivi, ha avuto un pacato moto di ribellione contro la «soap opera» derivata dall’incontro di «tre persone con grande esperienza politica, alle quali sono legato da rapporti di stima».

Ben più esplicita la sfida generazionale lanciata, per ragioni opposte, nel corso del vertice romano che ha sancito l’accordo fra il governatore e FdI, dal “giovane” (in quanto 48enne) Manlio Messina. «Non possiamo permettere che siano tre settantenni a decidere le sorti della Regione», è la frase attribuita all’assessore meloniano fan di Musumeci (e spifferata) da alcuni testimoni. I diretti interessati, va da sé, non l’hanno presa bene. E aspettano di vendicarsi. Ma senza fretta.

L’altra immagine – più che un selfie di gruppo, una pagina orwelliana in stile La fattoria degli animali – arriva dal fronte opposto. Con il Pd del segretario regionale Anthony Barbagallo (46 anni da poco compiuti) che, dopo aver decantato «un nome fresco, giovane, magari una donna», schiera Pietro Bartolo (66 anni) e continua a corteggiare Caterina Chinnici (67) come candidati dem alla Regione. Con uno scopo più o meno indiretto: azzoppare la corsa di Claudio Fava (classe 1957), che ci riprova all’insegna dell’eterno cambiamento, alfiere di una sinistra che continua a mangiare i bambini per non candidarli. Barbagallo corre un rischio calcolato: rompere l’idillio, costruito fra chilometri macinati in auto e happy hour al tramonto per brindare ai vari “modelli” giallorossi, col coetaneo Giancarlo Cancelleri. Leader carismatico dei grillini siciliani dal 2012, due volte in lizza da governatore, già una cariatide politica per chi lo contesta – Luigi Sunseri, con un decennio in meno all’anagrafe, ma anche il 47enne Dino Giarrusso – in un M5S fondato sul principio inviolabile (che ora fa acqua da tutte le parti) del limite dei due mandati.

Le urne del 2022 e del 2023 saranno davvero l’occasione giusta per un passaggio di testimone? Una suggestione, nel centrodestra, s’avanza: quella del puzzle ricomposto con Minardo, leghista under 45, in pista da governatore, la meloniana Carolina Varchi (38 anni) a Palermo e la forzista Matilde Siracusano (35) a Messina. Ma il terzetto deve scalare una montagna di capelli bianchi, o quanto meno tinti. Alla Regione ci sono le più che legittime ragioni dell’uscente Musumeci, rilanciate dalla 45enne Giorgia Meloni; per il dopo Leoluca Orlando (74 anni) s’è già prenotato Roberto Lagalla, classe 1955; nella città dello Stretto c’è già in campo Federico Basile, 44 anni. «Sono un candidato vero e motivato», sostiene il direttore generale dimissionario per smentire le voci sul gradimento di Cateno De Luca per la deputata azzurra. Del resto è proprio “Scateno”, ospite al tg di Antenna Sicilia, a chiarire il concetto: «Meglio soli che male accompagnati, non si può governare con la Banda Bassotti, che ci ha derubato, politicamente s’intende, del nostro presente e del nostro futuro». L’aspirante “sindaco dei siciliani”, per inciso, pur essendo ancora per poche settimane under 50, è in politica dal 1990. E arringa: «In Sicilia è il momento di un ricambio generazionale per ribaltare la cupola dei settantenni».

De Luca è il simbolo di una terra di mezzo: stoppato dagli anziani e già incalzato da chi è nato dopo di lui, nonostante padroneggi i social come un ragazzino. E forse è proprio questa la prigione bipolare di tanti 40-50enni. In Forza Italia, dopo la parabola di Giuseppe Castiglione (58 anni, pronto a riprendere una fulgida carriera interrotta dal caso Cara Mineo), c’è Marco Falcone (classe 1971), passato alla storia, a 23 anni, come sindaco più giovane d’Italia nella sua Mirabella. Con un aplomb tanto britannico da sembrare più che maturo sin dai tempi del Fuan, Falcone è il punto di riferimento di chi, fra gli azzurri di Sicilia, vorrebbe rottamare Miccichè. Ma, al di là di un paio di focolai di rivolta, non c’è ancora riuscito: se ne riparlerà, domani, nel vertice romano sull’ennesima pazza idea del presidente dell’Ars. Su cui l’ultima parola spetterà all’85enne Silvio Berlusconi.

Quasi la stessa storia di Peppino Lupo, ex enfant prodige  dem, che oggi, oltrepassata la soglia dei 55, consolida l’asse con l’immarcescibile Antonello Cracolici (60 anni fra qualche giorno) per mantenere le redini del Pd, condizionando le scelte del “giovane” Barbagallo fino a delegittimarlo, talvolta.

Del resto, gli annunciati riti edipici poi derubricati in coiutus (politicus) interrptus ci sono quasi ovunque. L’unico che ostenta la voglia di «scoprire giovani talenti della politica siciliana da candidare all’Ars» è Totò Cuffaro, 63 anni. Interdetto dai pubblici uffici, l’ex governatore si diverte a fare il talent scout. Ma non disdegna di assoldare le vecchie glorie. Come, a Catania, Elio Tagliaferro, tutt’altro che un giovincello, ex lombardiano strappato a Forza Italia. A proposito di Autonomisti: il riabilitato Lombardo, giurando di non voler «mai più correre per cariche elettive», incorona come suo erede Roberto Di Mauro (classe di ferro 1955), premio fedeltà per aver retto l’Mpa nel decennio di fermo giudiziario del leader, subito scandito dal fuggi-fuggi delle giovani colombine smarrite: da Nicola D’Agostino (oggi quasi 54 anni),  renziano tendenza forzista,  a Giovanni Pistorio, 61enne che si diletta a fare il bancomat di consigli fuori dall’agone, fino allo stesso Barbagallo. Certo, resterebbero altre due ex giovani promesse autonomiste: l’assessore Antonio Scavone (61 anni, ma ringalluzzito dalle recenti paternità) e Gaetano Tafuri (52), appena defenestrato dalla presidenza dell’Ast per la quale è stato scelto il ben più attempato Santo Castiglione. Ma chissà se e quando arriverà il loro turno. Magari per diventare sindaco di Catania. 

Una poltrona, quest’ultima, finora occupata – fra una sospensione e l’altra – dal 49enne Salvo Pogliese. Che, in passato indicato per la partita da governatore, vuole riprovarci nella sua città, magari dopo aver risolto i guai giudiziari, sfidando chi non considera più un tabù la «terza primavera» di Enzo Bianco. L’ex ministro, più volte sindaco, oggi ai vertici dell’Anci nazionale, veleggia verso i 71 anni. E ha un paio di processi da cui è certo di uscire indenne. Ma, non smentendo le voci su chi lo rivorrebbe a Palazzo degli Elefanti, ostenta una teoria sulla contaminazione intergenerazionale. Citando «la straordinaria freschezza e modernità delle idee» di Pasquale Pistorio , ex grande capo di StM,  come simbolo vivente (e 86enne) di un concetto: «La giovinezza non la dà quel numero che sta scritto sulla carta d’identità, ma l’approccio che hai, la voglia di studiare e di restare al passo con i tempi».

E così lui, che fu sindaco di Catania la prima volta nel 1989, oggi propone «una santa alleanza di creatività fra generazioni». Chissà che ne pensa Valeria Sudano, altra aspirante leghista («ma soltanto se Pogliese non vorrà o potrà esserci», va ripetendo) sotto il Vulcano. Oggi 46enne, la senatrice nel 2023 potrebbe diventare la prima sindaca dalla città di Sant’Agata. Facendo felice il suo compagno, nella vita e nella politica, Luca Sammartino, dieci anni esatti in meno, che magari sarebbe stato il baby-predestinato per Palazzo d’Orléans se non ci fossero quei due processi per corruzione elettorale di mezzo. Ma il deputato regionale, abituato a una programmazione pluriennale delle sue strategie, ha il tempo dalla sua parte. Lo sa benissimo lo stesso segretario  della Lega, Minardo, che ha dovuto ingoiare la campagna acquisti estiva di Salvini. E che ora si guarda le spalle dalla concorrenza interna dell’ex golden boy renziano, che proprio oggi spegne la sua 37ª candelina.

Il deputato di Modica sa bene che Sammartino (nemico giurato di Musumeci), nonostante tutto, sarebbe  un alleato-chiave nella corsa da governatore. Per la quale non è ancora chiaro se peserà di più il convinto sostegno del 48enne Matteo Salvini sul tavolo nazionale dei leader o le residue remore dei settantenni (o quasi) del centrodestra siciliano. «Nino, se tu te la senti, noi siamo con te», l’ultimo coretto unanime in cui l’accento sembra essere più sull’incidentale di chi sa di essere ancora decisivo sul verdetto. 

Attento osservatore dell’evolversi di questa vicenda è ovviamente Musumeci. Accusato da alcuni nemici di destra di «non aver fatto crescere mai nessuno dopo di lui». La stessa frase che, dall’altra parte, si sente dire su Bianco. Non a caso i due – avversari mai nemici, sodali mai alleati – sembrano aver siglato un patto di reciproca legittimazione. Che a Catania (ma non solo) vige in pratica da quasi trent’anni. Un periodo in cui sono stati repressi, e talvolta bruciati, diversi delfini: da tempo fuori dalla politica il bianchiano Harald Bonura (ha trovato prestigio e soddisfazioni in altri campi), il musumeciano Enrico Trantino (figlio di Enzo, padre nobile della destra catanese) è diventato assessore comunale nel 2019 all’età di 56 anni.

Al prossimo turno, nel Pizzo Magico, dovrebbe toccare a Ruggero Razza, classe 1980, buttato nella mischia da Musumeci, ad appena 28 anni, come candidato governatore con La Destra. All’assessore alla Salute, in molti, al netto di un seggio a Roma, pronosticano un ruolo da leader in nome della riconosciuta raffinatezza  della sua materia grigia. «Non farò più politica, in famiglia ne basta una», è la frase che Razza suole dire a chi lo provoca sul futuro. Riferendosi alla moglie 31enne, Elena Pagana, ex grillina con una bellissima carriera davanti. Sarebbe la smentita del postulato sul fuoco amico infragenerazionale: la rinuncia di un giovane a favore di una giovanissima. Ma è una rondine che non fa primavera. Perché c’è di mezzo il cuore. E perché, come sibila affettuosamente chi lo conosce sin dai tempi del “Fronte”, «Ruggero è un giovane vecchio: a vent’anni ne aveva già settanta dentro».

Twitter: @MarioBarresi

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