Sempre più povera e “mantenuta” dai nonni: ecco la Sicilia (desertificata) che va alle urne

Di Mario Barresi / 14 Settembre 2022
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Il ritratto, sfocato e alquanto spiegazzato della Sicilia alle urne con sbadigliante disillusione è il fotomontaggio tra un deserto e un cimitero. Un’Isola  che s’è spopolata (dal 2012 è come se fossero state rase al suolo Siracusa, Ragusa e Marsala), s’è impoverita (quattro contribuenti su dieci dichiarano meno di 10mila euro lordi l’anno) e viene mantenuta dai pensionati, che pesano per il 36% sul totale dei redditi da lavoro.

A decidere le sorti elettorali non saranno le soluzioni a questi (e altri) problemi, ma fattori diversi. A partire dalla transumanza dei signori delle preferenze: nelle liste del centrodestra ben 57 top player dell’Ars, un “partito” che vale da solo il 20%. Un peso enorme, che potrebbe però essere controbilanciato dal voto disgiunto, soprattutto di matrice populista. Da incrociare con un’altra variabile solo in apparenza misteriosa: l’effetto dell’election day su affluenza e scelte.

Quadro socio-economico e scenario politico: con i numeri si può fare tutto. O quasi. E così, grazie a un “data analyst” brillante e appassionato come il catanese Alessandro Riggio, il flusso incontrollato di cifre può diventare un mazzo di chiavi di lettura.

 

 

La via dei borghi fantasma

Nell’ultimo decennio la Sicilia ha perso 275.238 abitanti. Nella mappa colorata si traccia una specie di sentiero in rosso. «La strada dei borghi fantasma –  la definisce Riggio – dove lo spopolamento colpisce con maggior forza, inizia da Novara di Sicilia, al confine tra Peloritani e Nebrodi, attraversa le Madonie palermitane e arriva fino a Gibellina, nella Valle del Belice». In linea d’aria  quasi 200 chilometri lungo cui ogni comune ha perso almeno il 10% dei propri abitanti.

 

 

Dal 2011 il numero dei morti supera ogni anno quello dei nati e l’età media dei siciliani cresce da 42 a 44 anni. Un abitante su cinque ne ha più di 65. «Continuando così sarà uno su quattro entro 6-7 anni, e ciò aggraverebbe ancor di più l’indice di dipendenza strutturale, cioè  il rapporto tra persone in età attiva tra 15 e 64 anni e quelle che non lo sono, ovvero  under 14 e over 65. Dieci anni fa il dato s’attestava al 50%, oggi – annota Riggio – sfonda il 56». Ma ci sono due “oasi”: «Le eccezioni alla crisi demografica si concentrano nell’area etnea, fra Trecastagni, Pedara e Nicolosi, e nei dintorni di Palermo, a Carini e Terrasini. Resiste il Ragusano, che con un meno 0,3 per cento vanta il miglior dato dell’Isola».

 

Le nuove diseguaglianze

Nel 2021 il 41% dei contribuenti residenti in Sicilia (oltre 1.131.000 persone) ha dichiarato un reddito inferiore ai 10.000 euro: un “marker” di lavoro nero, ma soprattutto di  indigenza. Solo meno del 3% (82.852, «come il numero di tifosi che siede a San Siro nelle grandi occasioni») più di 55.000 euro, di cui appena lo 0,3% (9.381, «talmente pochi che entrerebbero tutti in uno stadio comunale») sfonda i 120.000 euro.

 

 

 

Riggio incrocia le coordinate: «Man mano che le fasce di reddito aumentano, i valori più alti tendono a concentrarsi vicino le coste, beneficiarie del tessuto economico delle grandi città, acuendo così ancora di più le diseguaglianze con le aree interne e periferiche». Anche nelle zone più ricche, come nella cintura etnea, almeno il 30% dei contribuenti afferma di avere guadagnato meno di 10.000 euro. «La portata di questo squilibrio – aggiunge il “data analyst” risalta analizzando le diverse voci che compongono il reddito totale. Nell’Isola i redditi da pensione rappresentano il 36% del totale dei redditi da lavoro». E ciò nonostante i pensionati rappresentino una fetta di popolazione minore: 1.182.370 nel 2020 pari al 24% degli abitanti.

 

In 43 comuni – gran parte dei quali nel Messinese – le pensioni costituiscono addirittura la voce di reddito più alta, sfondando il 50%. Così è a Ucria, Basicò e Mongiuffi Melia.  «In tutte le altre città siciliane, a onor del vero, la tipologia di reddito che incide di più, in linea col resto del Paese,  è il  lavoro dipendente, con percentuali oltre il 55% in larghe parti delle province di Palermo e Catania».

 

I signori delle preferenze

Di fronte a questi problemi, almeno in campagna elettorale, dovrebbe esserci la prospettiva che può vincere chi propone le soluzioni migliori. Invece l’attenzione dell’analista catanese, rispetto al voto per le Regionali, si concentra su un altro «fattore decisivo»: i signori delle preferenze. Riggio, che li ha catalogati, ne dà una definizione scientifica: «Sono gli attuali candidati all’Ars che alle elezioni del 2017 hanno ottenuto almeno l’uno per cento dei voti nel proprio collegio provinciale». Cinque anni fa, fra i circa 900 candidati complessivi, furono 199 (160 uomini e 39 donne), capaci di raccogliere oltre un milione di voti (esattamente 1.081.806), la metà del totale delle liste. Oggi si ripresentano in 75: 65 uomini e 10 donne. «Le preferenze alle regionali – premette il “data analyst” – sono meno volatili dei risultati dei partiti alle politiche».

 

E il centrodestra schiera ben 57 signori delle preferenze che, se riconfermassero i risultati del 2017, porterebbero in dote alla coalizione 428.374 voti. «Basandosi sull’affluenza di allora – ricorda Riggio – ciò permetterebbe alle liste di Schifani di superare il 20 per cento ben prima di scendere in campo…». Venendo alle singole liste, guida la classifica Forza Italia (19 signori delle preferenze: 152.349 voti), seguita da FdI (17 candidati: 112.295 preferenze) e Lega-Prima l’Italia (13 big per 106.218 voti), che schiera però il recordman Luca Sammartino. Che, da solo, valeva nel 2017 il 7% del collegio di Catania e l’1,7% di tutta l’Isola. Più staccate le liste dei Popolari e Autonomisti (quattro candidati, 36.829 voti), nei cui ranghi spicca Luigi Genovese a Messina (17.359 preferenze), e della Dc Nuova (quattro candidati, 20.683 voti). Ben 12 “acchiappavoti” oggi di centrodestra (119.172 voti) erano in campo cinque anni fa col centrosinistra. La coalizione assolda pure i quattro ex 5stelle di Attiva Sicilia (42.689 voti), «chiamati però ora a misurarsi fuori dalla casa madre grillina». E non sarà la stessa cosa.

Appaiati centrosinistra e M5S, con circa 45mila  voti potenziali ciascuno. Il Pd (cinque candidati, 40.398 voti), annota Riggio, «gode dell’esperienza di cavalli di razza come Anthony Barbagallo, Antonello Cracolici e Nello Dipasquale, accogliendo, unica new entry per i dem, il siracusano Gaetano Cutrufo, già in quota centrosinistra alle passate regionali, ma con gli alfaniani». I pentastellati ne hanno invece otto, di cui sei deputati regionali uscenti: il candidato governatore Nuccio Di Paola a Caltanissetta, Luigi Sunseri a Palermo, Jose Marano a Catania, Giovanni Di Caro ad Agrigento, Antonio De Luca a Messina e Giorgio Pasqua a Siracusa. Dei Cento Passi «figura il solo Claudio Fava, la cui lista nel 2017 ricevette un consenso territoriale omogeneo tra le Province, senza registrare, tranne che nel Ragusano, exploit locali dovuti a campioni delle preferenze».

Nella campagna acquisti dei signori del voto, Cateno De Luca, oltre a ripresentare il fedelissimo Danilo Lo Giudice, strappa al centrodestra Angelo Bellina (Caltanissetta) e Sebastiano Lombardo (Enna), e al Pd Angelo Villari (Catania).

Cosa significa tutto ciò? «In sintesi, la nuova collocazione dei candidati più votati, combinata alle fuoriuscite dai dem e ad alcune non ricandidature “pesanti” nel M5S, favorisce sulla carta il centrodestra più di quanto avesse certificato il risultato del 2017: rispetto a quell’elezione, la coalizione di Schifani vanta otto signori delle preferenze nella top 10, quando invece la compagine che sostenne Musumeci, a risultato acquisito, ne aveva appena tre. Oggi il centrodestra – dice Riggio – ha una potenza di fuoco 10 volte più forte degli avversari diretti».

 

Le teorie sul “disgiunto”

Su queste premesse, i giochi sarebbero fatti. Se non ci fossero almeno altri due elementi che il “data analyst” tiene molto in considerazione. «I candidati di centrodestra alla presidenza raccolgono storicamente meno della propria coalizione», ricorda. Così fu per Totò Cuffaro (-5,96% rispetto alla coalizione nel 2001, addirittura -8,52% nel 2006), per Raffaele Lombardo (-2,74% nel 2008), per Gianfranco Miccichè (-4,57% nel 2012) e per Nello Musumeci (-2,2% cinque anni fa).

 

 

 

«Su Schifani  – sostiene Riggio – incombe il rischio di subire l’ondata del voto disgiunto, pratica familiare agli elettori dell’Isola, che verosimilmente premierà De Luca». Per l’aspirante “sindaco di Sicilia” le speranze di vittoria passano anche da qui, «riuscendo dove hanno fallito gli altri» (Leoluca Orlando nel 2001, Rita Borsellino nel 2006 e Giancarlo Cancelleri nel 2017): tutt’e tre candidati «nettamente più competitivi delle rispettive coalizioni, che non sono riusciti, però, a strappare il ticket per Palazzo d’Orléans».

Riggio ipotizza una strategia con tanto di mappa: «De Luca, in particolare, potrebbe focalizzarsi, nel rush finale della campagna elettorale, nei comuni in cui il voto disgiunto a favore di Cancelleri fu più alto nel 2017, ovvero nell’Agrigentino e nel Siracusano».

 

 

 

Un sostegno che allo storico leader pentastellato arrivò soprattutto dal Pd (Fabrizio Micari -6,75% rispetto alle liste del centrosinistra), ma anche da chi votò per un partito di centrodestra e non per Musumeci. Stavolta, però, c’è anche una terza direttrice, «se De Luca convincesse l’elettorato grillino che è davvero l’unico che può contendere la vittoria a Schifani», potrebbe scattare un inedito “disgiunto populista”: attivisti del M5S che esprimono la preferenza identitaria alla lista, ma, anziché su Nuccio Di Paola, puntano su un altro cavallo (pazzo).

 

Il fattore election day

Ma anche queste proiezioni rischiano di essere incomplete se non si considera un altro doppio coefficiente: quanti andranno alle urne nell’election day. «L’affluenza per le elezioni regionali, senza traino delle politiche, non avrebbe alcuna chance di superare il 50 per cento. In 114 comuni, la partecipazione al voto è crollata di almeno 20 punti tra 2001 e 2017, anno della vittoria di Musumeci, segno della disaffezione dei cittadini per Palazzo dei Normanni e Palazzo d’Orléans». L'elezione del governatore uscente, cinque anni fa, fu decretata dal 46,76% degli aventi diritto. Ma il prossimo 25 settembre c’è appunto la coincidenza con le Politiche. L’ultima volta che accadde, nel 2008, alle Regionali si registrò un’affluenza del 66,68%.

Cosa significa in prospettiva? Ci sarà un “delta” di voto meno legato alla forza specifica degli aspiranti deputati regionali. Riggio sostiene che «il tasso di preferenza delle regionali (la percentuale dei voti espressi per i candidati all’Ars  sul totale di quelli validi alle liste, ndr) dovrebbe diminuire, favorendo De Luca e Di Paola, entrambi candidati più forti delle proprie liste». Una previsione basata su alcuni precedenti: «Nel 2008 il tasso di preferenza fu del 70,9%, quando appena due anni prima, nel 2006, aveva raggiunto l’86,6 per cento. Alle Regionali del 2017, nonostante il notevole risultato del M5S, refrattario più di ogni altra forza a ricorrere a pacchetti di preferenze “militarizzati”, raggiunse comunque il 77,8».

Ma c’è un altro ipotetico scenario: il trascinamento del voto “politico”. Elettori che magari diserterebbero le urne per le Regionali, ma ci vanno per sostenere il proprio partito nella partita nazionale. Con quale esito sugli equilibri siciliani? Anche qui si può ricorrere, per analogia, al precedente del 2008. Lombardo incassò il 65,3%, più che doppiando Anna Finocchiaro, ferma al 30,4%, con il totale delle rispettive liste pari al 68,1 e al 28,6%. Negli stessi giorni, il 13 e 14 aprile, nella circoscrizione unica “Sicilia” del Senato, il centrodestra totalizzò il 54,7%, mentre il centrosinistra si attestò il 28,8%. Una sostanziale uniformità dei dati dei progressisti, nonostante il Pd perse per strada quasi 7 punti alle Regionali.

Ma come si spiega una differenza di oltre il 13% (che sale quasi a -17% alla Camera), nell’altra coalizione, in cui il Pdl precipitò dal 46,8 del Senato al 33,42% dell’Ars? Con una doppia scelta “identitaria”. La prima è quella dell’Udc, che a Roma non entrò nella coalizione guidata da Silvio Berlusconi, mentre a Palermo sostenne Lombardo, col 12,5% alla lista dello scudo crociato (9,6% il dato siciliano alle Politiche). La seconda è dell’elettorato regionale, che premiò la proposta del candidato autonomista: 22,1% alle sue liste, il triplo rispetto ai voti che l’Mpa, alle Politiche apparentato col Pdl (dopo la federazione nel 2006 con la Lega di Umberto Bossi) totalizzò nell’Isola al Senato. In schede diverse, ma lo stesso giorno e nella stessa cabina elettorale.

 

 

Proprio come sarà il prossimo 25 settembre, quando l’unica variabile davvero incontrollabile – la volontà dei siciliani – potrà confermare pronostici, simulazioni e sondaggi. Oppure sovvertirli.

Clamorosamente.

Twitter: @MarioBarresi

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Pubblicato da:
Alfredo Zermo
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