Politica
Sammartino, dr. Jekill o mr. Hyde? Ecco la tela dei rapporti ad alta tensione
Catania. Un «uomo delle istituzioni», come ama definirsi, tessitore di accordi e padrino un po’ secchione di riforme trasversali di cui a Palermo gli riconoscono il merito fino a moltiplicare la stima (e l’invidia) dei colleghi; oppure una macchina mangia-voti tanto sicura delle proprie prestazioni da superare il limite di velocità, rischiando ben più di una multa per una decina di ipotesi di reato da corruttore elettorale.
Anche stavolta è beffardamente svizzero, il rintocco della legge del contrappasso. Proprio quando qualcuno cominciava ad attestare, nel bene e nel male, il “modello Sammartino” nei lavori all’Ars, ecco che nelle carte dei magistrati viene fuori il “sistema Sammartino”.
Dottor Jekyll o Mister Hyde? L’uno o l’altro? Oppure entrambi? Nel giorno della rivelazione dei contenuti dell’inchiesta a carico di Luca Sammartino, indagato a Catania con altri 12 per corruzione elettorale, gli interrogativi – un chiacchiericcio magmatico dapprima sotto faglia – eruttano senza fare scintille. All’ombra del Vulcano. Ma la cenere lavica del dubbio si diffonde ben più in là, fra anticicloni giustizialisti e correnti garantiste.
«Onorevole, siamo a quota sette!», gli ha certificato, con fare plateale, uno dei più autorevoli grand commis di Palazzo dei Normanni. Era qualche giorno fa, dopo l’approvazione (senza alcun voto contrario) del disegno di legge sulla formazione professionale. Una «riforma storica, attesa da 43 anni», l’ha definita Sammartino nel dedicarla al suo compianto “maestro” Lino Leanza. Al quale il 34enne leader renziano deve il suo rito iniziatico in politica, col rimpianto umano dello scontro finale che vide pigmalione e pupillo l’uno contro l’altro in Articolo 4.
«Studiare e lavorare all’Ars e poi stare sul territorio», il metodo di lavoro ereditato da Leanza, dal quale Sammartino ha appreso anche l’arte della guerra da pacifista. La capacità di parlare con tutti, in ogni momento, anche in piena burrasca. E lui così è in commissione Cultura: lunghe sedute per condividere i testi, caminetti per concordare gli emendamenti, telefonate e sms per smussare le diversità. Ed ecco il “metodo Sammartino”: ddl che arrivano in aula blindati, perché nessuno è disposto a disconoscere una legge dopo averne accompagnato la gestazione.
«Dovremmo fare come fa Sammartino», ha ammesso una colomba di centrodestra in un recente vertice palermitano. Suscitando un certo disprezzo presidenziale. Totalmente diverso, Nello Musumeci, dal renziano rampante. E non soltanto per il feeling, mai nascosto, che lega Sammartino all’alter ego del governatore. Decisivo, due anni fa, lo strappo del deputato dem dall’opposizione per eleggere Gianfranco Miccichè alla presidenza dell’Ars. E con il viceré berlusconiano dell’Isola un “coitus interruptus”, al culmine dell’era anti-Salvini, per il progetto della «casa comune dei moderati».
Il ribaltone giallorosso, il nuovo partito di Renzi, il “torna ad Arcore, Lessie” dei centrini forzisti. Se son rose fioriranno, come continuano a fiorire – seppur in giardini separati – i rapporti di Sammartino con un altra quercia della politica siciliana: Mirello Crisafulli. Fu il “Barone Rosso” a indicare il giovane catanese come «segretario regionale del Pd ideale», prima che il designato designasse Davide Faraone. Sappiamo com’è andata a finire.
Il silenzio dei reticenti. Nessun commento, né prese di posizione sull’inchiesta che coinvolge Sammartino. Un po’ per rispetto istituzionale (del resto lui non ha mai infierito su colleghi inguaiati) un po’ per timore elettorale (seppur indagato, sempre “Mr. 32mila preferenze” resta: e le Amministrative sono alle porte), neanche i più forcaioli si espongono.
«L’indagine è molto più pesante di come sembrava nelle prime ore», si lascia scappare qualcuno del Pd, magari confidando in un minimo di rendita di posizione a Sud-Est. Fra i dem un groviglio di sensazioni: dal «ben gli sta» ai timori per «uno che resta un amico». Ma anche nel centrodestra c’è chi sarebbe autorizzato a un’intima esultanza. Un nome a caso: Ruggero Razza. Neanche lui s’è mai “ciauriato” con Luca. Entrambi under 40; uno post-missino senza mai aver votato la vecchia Fiamma, l’altro post-democristiano senza aver mai segnato lo scudo crociato; storie distanti pur nella comune appartenenza alla Catania bene, ora entrambi nuotano, con stili diversi, nel medesimo acquario della sanità. Da rivali.
Processo alle porte? Dipende da quanto sarà dimostrabile il “sistema Sammartino”. Un reticolato di rapporti, un incrocio “multitasking” domanda-offerta. Dal lavoro nella multinazionale della sanità hi-tech alla spintarella per far trasferire la cugina infermiera, dalla promozione alla pratica da sveltire. Tutto, secondo l’accusa, attraverso dei cerchi concentrici: chi chiede qualcosa a Sammartino è allo stesso tempo un grande elettore e un eletto in comuni e circoscrizioni.
E così le preferenze vengono aspirate come con un’idrovora, diventando quasi tessere-fedeltà dell’ipermercato. Tanto un «vediamo che si può fare» è gratis, non si nega a nessuno. L’organizzazione, d’altronde, è fondata su uno strumento efficace anche al tempo dei social: la segreteria politica. E in quel palazzotto di via D’Annunzio la sacerdotessa dell’agenda sammartiniana è Maria Bonanno. Minuta ed elegante, già donna-ombra di Raffaele Lombardo, una che di voti e di potere se ne intende.
Sammartino come catalizzatore di interessi. «Così fan tutti, o quasi», lo difendono. «Ma lui esagera, è troppo spregiudicato», lo accusano. Se c’è un do ut des, va provato. Ma se fosse così sarebbe complicato uscirsene fuori pulito. Anche perché, paradossalmente, è molto più insidiosa (benché meno grave) un’ipotesi di corruzione elettorale che lo spettro, aleggiante da tempo in palazzi e salotti catanesi, di un fascicolo per 416-ter. Racconti, favole, leggende metropolitane, ma forse anche film dell’orrore.
Eccolo, lo show down. E stavolta niente vecchiette dell’ospizio, ma spine e rovi. Sammartino si difende, si difenderà. «Sono uno a cui piace programmare le cose per tempo, non lascio mai nulla al caso», dice ai giovani universitari che bazzicano la sua segreteria. L’uscita dal Pd dopo il limbo da separato in casa, l’ingresso in Italia Viva, l’organizzazione dell’esercito renziano in Sicilia.
Tutto è studiato con maniacale premeditazione. «Voglio che i giovani di questa terra ricomincino a sognare», ripete spesso. Ricordando, a se stesso prima che agli altri, che «comunque ho 34 anni». I sogni son desideri. Come quello che, anche a occhi aperti, Luca magari stava accarezzando da un po’. La corsa verso Palazzo d’Orléans, una maratona. Lenta e cadenzata. Impegno e fatica, l’allenamento continua. Ma, da sabato, con un po’ di fiatone in più.
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