Regionali, fra santini e santoni in scena la guerra santa dell’ipocrisia

Di Mario Barresi / 01 Ottobre 2017

In principio – l’inizio della fine – fu Rosario Crocetta.

Cinque anni fa, di questi tempi. Ex comunista eppure cattolico, omosessuale dichiarato. «Quand’ero sindaco a Gela feci arrestare 850 mafiosi» (ma anche 825, 820 o 750 in base ad altre variazioni statistiche del mantra autobiografico) andava e va ripetendo. Un santino dell’antimafia. Dietro al quale – grazie anche ai buoni (e interessati) uffici di altri due santoni della legalità: il confindustriale Antonello Montante e il senatore Beppe Lumia, l’uno decaduto l’altro dèmodè – fu costruita la gioiosa macchina da guerra che vinse le Regionali del 2012.
È andata com’è andata.


Rosario Crocetta dopo l’elezione del 2012

E non è finita.

Perché a volte – anzi: spesso – ritornano. Icone e simboli; santini e santoni; immagini e suggestioni; bandiere e banderuole.

Come prima, più di prima. Cinque anni dopo. Una reiterazione di reato sarebbe stata la scelta del Pd (e di Renzi in particolare) di rottamare un’icona della legalità con un’altra dell’accoglienza dei migranti: Giusi Nicolini. Sindaca non rieletta dai lampedusani e presidente da far eleggere ai siciliani. Non se ne fece nulla, così come – per il rifiuto, secco e garbato, dell’interessato – saltò la candidatura del simbolo dei simboli: Piero Grasso, autentico antimafiosissimo da una vita e uomo delle istituzioni.

Non è santo che suda, non c’è grasso che cola. Quindi spazio alle altre suggestioni. Del “campo largo” e del “modello Palermo”. Il cui combinato disposto, nel vuoto per pieno dei politici politicosi, è il civismo.

Come fu e come non fu, Leoluca Orlando – autoproclamatosi «statista», dal 1980 momentaneamente prestato alla politica, aspettando la Sicilia che «non è pronta a essere governata da uno statista» – diventa il mazziere del centrosinistra e crea la candidatura di Fabrizio Micari, rettore in congedo straordinario, che chiede il permesso di fare la sua rivoluzione gentile.

È il civismo, bellezza. Lo stesso usato a sua insaputa – ante litteram, quando il termine non era così di moda – da Nello Musumeci prima per annacquare il suo pedigree post-missino, poi per autocandidarsi e infine per essere candidato dal centrodestra, con #DiventeràBellissima. Movimento mosso da una citazione («Questa terra…» era il soggetto) di Paolo Borsellino. Monumento. Prima di essere icona della destra legalitaria. Ma forse tutto ciò ignorava il candidato grillino, Giancarlo Cancelleri, mentre – dalla Valle dei Templi con un sorridente e annuente Gigino Di Maio – arringò: «Qualcuno dice che diventerà bellissima; peccato che la Sicilia sia già bellissima». «Qualcuno a chi?», ribatterono – sottintendendo il giudice ucciso dalla mafia – gli adepti di Musumeci, nel suo piccolo iconcina antimafia dopo aver presieduto l’omonima commissione all’Ars.


Nello Musumeci e Vittorio Sgarbi

Se ci fosse già stato in campo Vittorio Sgarbi, icona laica di bellezza e di cazzeggio, al povero Cancelleri non gliel’avrebbe tolto nessuno un «capra, capra, capra!», epiteto al cubo che simboleggia un’altra deriva di questa campagna elettorale. Quella sul titolo di studio degli aspiranti governatori. Nella tornata a più alto tasso di Magnifici ed ex Magnifici candidati, il Vittorio nazionale ha osato dire: «Penso che il presidente della Regione deve essere laureato e Musumeci lo è, a dispetto del geometra Cancelleri». Beccandosi, in assenza di qualcuno lo correggesse sul congiuntivo, una replica, piccata e piccante, del grillino diplomato: «Offende i siciliani che lavorano. E poi Musumeci la laurea non ce l’ha. Se Sgarbi s’informasse, eviterebbe queste figuracce». Nel profilo del deputato di #DiventeràBellissima, sul sito dell’Ars, si parla di «Maturità Tecnica». E per quell’impenitente immaturo di Sgarbi, ieri, dal sacro blog di Beppe Grillo, arriva la fatwa: «È l’ultimo pezzo pregiato della galleria di “mostri” di Musumeci».

Tant’è. Cancelleri – che magari avrà solo il diploma, eppure la laurea honoris causa in democristianità se l’è meritata in una campagna elettorale sin troppo diplomatica – s’è concesso un colpo da master in comunicazione politica della Casaleggio Associati. Assoldando, lui che con l’inseparabile Di Maio era scivolato sulla buccia di banana dell’«abusivismo di necessità», la super icona della lotta agli abusi edilizi in Sicilia. L’ex sindaco di Licata, Angelo Cambiano, ruspante simbolo delle ruspe; pluriminacciato, iperpresente nei salotti tv e infine sfiduciato in consiglio comunale. Per Cancelleri una fragorosa espiazione della gaffe. Come mettersi in casa un prete dopo aver bestemmiato.


Angelo Cambiano e Giancarlo Cancelleri

Cambiano, dopo averla fatta subodorare a tutti gli altri – la candidatura – tanto da far spingere il taciturno Musumeci ad annunciare il sostegno alla sua lista, gliel’ha data – la disponibilità – ai 5stelle. «Sarà il sindaco dei sindaci, assessore non grillino alle Autonomie locali». Ecco, appunto: non grillino. E così il simbolo dell’inedito laicismo dei 5stelle viene subito colpito dal fuoco amico. «Abbassiamo le saracinesche e spegniamo le luci», scrivono dal meetup. Gli attivisti licatesi si dicono «mortificati» dalla «scelta verticistica» di Cancelleri. E, da sacerdoti custodi dell’ortodossia del movimento, oltre a rinfacciargli i suoi trascorsi col centrodestra, bollano Cambiano come «bolla mediatica».


Giovanni Impastato e Claudio Fava

Simboli. Contestati. O contesi. Come nel caso di Peppino Impastato, giornalista ucciso dalla mafia, finito in mezzo alla singolar tenzone fra il fratello Giovanni e Claudio Fava. Oggetto della lite il nome della lista del candidato governatore: Cento passi per la Sicilia. Simbolo che evoca la distanza (anche se qualche precisino ne ha contati 94, di passi) fra le case di Impastato e del boss Tano Badalamenti; ma anche titolo del film sceneggiato dallo stesso Fava. Una «operazione elettorale alla ricerca di consensi», attacca Impastato. «I Cento Passi è un’immagine che appartiene ai siciliani onesti», replica Fava. Precisando che è «una scelta che abbiamo condiviso con Giovanni ben prima di presentare questo simbolo». Controreplica di Impastato intervistato da Repubblica: «Fava non lo vedo da dieci anni. Dice bugie e offende la memoria di mio fratello. Ora vado dall’avvocato».

Icone contro. L’antimafia di tutti e l’antimafia del ghetto dei parenti. Questioni di famiglia. Come i simboli – contrari e opposti – di un’altra battaglia. Quella contro i cosiddetti impresentabili. Ben più colpevoli dei voltagabbana (la coerenza, nella politica siciliana, è quasi un male minore), perché marchiati dalla lettera scarlatta dell’infamia parentale. Citiamo i più citati: Silvio Cuffaro, fratello di Totò già detenuto per favoreggiamento alla mafia, eletto sindaco di Raffadali e ora incandidabile alle Regionali eppure prossimo candidato alle Politiche con Forza Italia; Luigi Genovese, astro nascente forzista, figlio «abbastanza incensurato» di Francantonio, condannato in primo grado per le truffe nella formazione professionale; Giuseppe Lombardo, figlio di Angelo e nipote di Raffaele, a processo per voto di scambio aggravato dalla mafia, forse in lizza con Forza Italia. Al netto degli altri casi (una decina di aspiranti candidati con guai giudiziari personali), i familiari di Genovese, Cuffaro e Lombardo sono figure mitologiche – loro il corpo, la testa (e i voti) dei parenti – che simboleggiano l’ipocrisia di questa campagna elettorale. In cui più voci invocano gli “esami del sangue” da parte dell’Antimafia nazionale ai candidati siciliani, così come già avvenuto per le Regionali in Campania. Ben sapendo che, per l’attuale codice etico, gli impresentabili sono perfettamente in regola.


Totò Cuffaro e Francantonio Genovese

Mascariamenti. In una guerra santa, di santini contrapposti. La legalità, l’antimafia, le ruspe, il titolo di studio, gli impresentabile. E il Ponte. Ultimo tema di scontro. Altrettanto ipocrita e simbolico, visto che il prossimo governatore inciderà sul destino fra Scilla e Cariddi come il presidente della bocciofila sulle risoluzioni dell’Onu.

Ma ormai sono le Regionali delle immaginette. E se c’è un Crocetta che esce, c’è pure – per la legge del contrappasso – una croce che non vogliono fare entrare. «La bocciatura del contrassegno di Unione Cristiana da parte della Regione, solo perché contiene la croce, è illegittima e pertanto ricorreremo in ogni sede». Lo dice, con fervore da crociato, un tale Scilipoti Isgrò. Ovvero: il mitico Domenico Scilipoti, ex dipietrista folgorato sulla via di Arcore, che ha da poco aggiunto il doppio cognome all’anagrafe, in un travaglio epifanico da macchietta a erede di De Gasperi. «Non permetteremo che, dopo aver eliminato i crocifissi dalle aule scolastiche in nome di una presunta tolleranza, i cristiani vengano espulsi dalla vita pubblica, soprattutto con scuse banali», sbotta. Denunciando una «deriva totalitaria inaccettabile, figlia di una cultura laicista, condivisa da Pd e Cinquestelle».


Domenico Scilipoti


Ci mancava solo lui. E adesso è arrivato. Soltanto posti in piedi, da qui in poi. Alle elezioni più iconografiche e iconoclaste della storia.

Twitter: @MarioBarresi

Condividi
Pubblicato da:
Redazione
Tag: angelo cambiano claudio fava domenico scilipoti elezioni regionali fabrizio micari francantonio genovese giancarlo cancelleri giovanni impastato i cento passi leoluca orlando mario barresi nello musumeci peppino impastato rosario crocetta totò cuffaro vittorio sgarbi