«Se ne parla dopo quello che succederà sul presidente della Repubblica», è stato il refrain – e talvolta il malcelato alibi – della politica siciliana negli ultimi mesi.
Ebbene, adesso ci siamo. Dopo la rielezione di Sergio Mattarella, con gli effetti devastanti sugli equilibri nazionali, è il momento di tirare le somme anche nell’Isola. E si avvicina l’ora delle scelte. A tutti i livelli.
Ma prima c’è un dubbio che tormenta molti: che nome c’era nella scheda che Nello Musumeci ha infilato nel catafalco all’ultimo scrutinio di sabato sera? Nessuno lo sa, perché il famigerato voto segreto – quello previsto dai padri costituenti per scelte così delicate, lo stesso detestato dal diretto interessato dopo le tante imboscate all’Ars – protegge la privacy politico-istituzionale del presidente della Regione.
Le ipotesi sono due. La prima, legata al sentimento, vorrebbe che Musumeci, in delegazione con gli altri governatori e i capigruppo della maggioranza a implorare il presidente per il bis, abbia scritto il nome del «concittadino» Mattarella; per ragioni campanilistiche, ma anche di prossimità familiare, data la scelta della nipote, Maria, come segretaria generale, al vertice della burocrazia di Palazzo d’Orléans. La seconda ipotesi, quella della ragione (politica), suggerisce un allineamento di Musumeci, in procinto di entrare in Fratelli d’Italia dopo un accordo dato per «chiuso, soltanto da ufficializzare» dai fedelissimi di entrambi i contraenti, alla strategia di Giorgia Meloni. Se fosse così, magari turandosi il naso, il governatore avrebbe votato per lealtà il candidato di rottura dei patrioti, Carlo Nordio. Come il pallottoliere dei più navigati cultori della materia degli scrutini segreti suggerisce: all’ex magistrato sono andate più preferenze (in tutto 80) rispetto ai 63 grandi elettori di FdI.
Il mistero resterà insoluto. Ma, al di là del voto espresso dal governatore, uno degli effetti collaterali più evidenti del Quirinal Game sulla politica regionale è che Musumeci adesso è ancor più isolato. E in questo caso non per colpa sua. Meloni investe elettoralmente sul ruolo di oppositrice accanita della maggioranza che ha eletto Mattarella (e che sostiene il governo Draghi), con il risultato di frantumare un centrodestra già uscito con le ossa rotte dalla dalle nomination lanciate e bruciate.
Che c’entra tutto ciò con la Regione? Provate a chiederlo magari ai tanti big e peones siciliani che – prima, durante e soprattutto dopo il manifestarsi del risultato per il Colle – continuavano a ripetere, in Transatlantico e in frenetici scambi di telefonate e sms, la stessa identica domanda: «E se lo facessimo anche da noi?». Il copyright dell’idea, in tempi assolutamente non sospetti, è del solito Gianfranco Miccichè. «Adesso possiamo pensare anche al piano B, che per me è stato sempre il piano A: il modello Draghi-Mattarella anche alla Regione», gigioneggiava a Montecitorio alla vigilia dell’incoronazione di Sergio II. Dopo aver preparato il terreno. «Bisogna riproporre la stessa maggioranza, lasciando fuori la Meloni. Io vi garantisco che la Lega ci sta, non so il Pd. E voi che fate?», è il succo del discorsetto tirato fuori nell’aperitivo romano con i grillini Giancarlo Cancelleri e Nuccio Di Paola, ben prima che nelle convulse trattative notturne si riproponesse, con l’asse fra Matteo Salvini e Giuseppe Conte, il nostalgico idillio gialloverde.
L’idea non è nuova. Ed è stata già bocciata da alcuni potenziali protagonisti. «Ma ora il clima è cambiato, si può davvero fare», ribatte il leader forzista a chi gli fa notare che in Sicilia sarebbe tutto più complicato. Perché qui non ci sono né un Draghi né un Mattarella, soprattutto. E poi perché la legge regionale – elezione diretta del governatore e premio di maggioranza – è quanto di più distante possa esserci dal proporzionale che in molti a Roma adesso pregustano. Ammesso e non concesso che ci stiano i grillini, fino a che punto il Pd sarebbe pronto a sperimentare un “famolo strano” con la Lega a pochi mesi dalle Politiche? Cosa diversa è la propensione già manifestata da Italia Viva e da altre aree centriste. «Parliamone presto», sarebbe il messaggio rivolto da alcuni renziani, a partire da Davide Faraone, a interlocutori leghisti di spicco. Con l’ex ministro Totò Cardinale, nel ruolo di saggio in apparenza fuori dai giochi, pronto a benedire l’ennesimo laboratorio siciliano. Tra il dire e il fare c’è l’oceano della scelta di un candidato. «Alternativo a Musumeci, a cui nei prossimi giorni dichiareremo guerra ufficialmente», annuncia ai suoi Miccichè, ora disposto pure ad ammainare il sogno di candidarsi in prima persona (mantenendo in cambio la presidenza dell’Ars), pur di esercitare il ruolo di «protagonista di un esperimento che cambierà il futuro della Sicilia». E quindi pronto a convergere su un nome scelto dalla Lega (il deputato Nino Minardo?), soprattutto se Salvini, dopo la rottura con Meloni, rilanciasse la golden share sulla presidenza della Regione.
Per i custodi dell’ortodossia del «centrodestra unito e vincente» tutto ciò è «fantapolitica», come minimizza un assessore di peso. Certo, o quasi, che il quadro rimarrà pressoché immutato. E che Musumeci, dopo il giro di consultazioni (palermitane e romane), deciderà di lasciare tutto com’è: «Nessun azzeramento della giunta, solo un paio di cambi». Anche perché molti partiti, dopo il rimpasto, non rientrerebbero più.
Ma c’è chi è convinto che il governatore, di ritorno dalla giostra del Quirinale, voglia farne girare una tutta sua. «Resta solo chi sostiene la mia ricandidatura, altrimenti faccio un governo elettorale del presidente», la minaccia ripetuta a tutti gli interlocutori di questi giorni. Con l’altro scenario, tutt’altro che improbabile, di dimissioni. Per andare al voto anticipato ad aprile-maggio. E la speranza che anche i «traditori», confusi e impreparati, andrebbero a cercarlo implorandolo per un ritorno che scongiurerebbe la sconfitta. «Ma questo è un film che si fa lui. Musumeci non è Mattarella e in Sicilia – bisbiglia un vecchio saggio della coalizione – il finale è già scritto: il governo regionale durerà fino a scadenza naturale e si andrà al voto con un candidato che non sarà l’uscente. Che avrà un posto al sole dalla Meloni».
Ma chi è vicinissimo al governatore giura che non sarà così. L’opzione “MasaNello” si avvicina di giorno in giorno. E la lista degli assessori (appena quattro gli attuali riconfermati) è già pronta. Anche per cogliere di sorpresa chi gli sta preparando una brutta sorpresa.