Politica
Quale Autonomia per quale Sicilia: Musumeci e i 75 anni dallo Statuto
La ricorrenza dei settantacinque anni dello Statuto siciliano, ricordata ieri con la sobrietà che il momento impone, restituisce attualità ad una domanda che in tanti, seppure sottovoce, si pongono: ha ancora senso in Sicilia parlare di autonomia regionale come strumento di sviluppo?
L’area del dibattito, in verità affollata da soli addetti ai lavori, resta sostanzialmente occupata da due “partiti”: chi sostiene che lo Statuto sia ormai un arnese da consegnare alla storia del Novecento, uno strumento segnato dal tempo; e chi, facendone un mito, quasi un vangelo laico, lo ritiene ancora intoccabile.
A mio avviso, nessuna delle due tesi ci aiuta ad avere un approccio utile nella rilettura di un nuovo regionalismo. Sebbene lo Statuto sia stato il primo documento costituzionale del Dopoguerra, evoluto ed innovativo, nei suoi sviluppi storici successivi si è rivelato assai infruttuoso, anche per il mancato coordinamento con la Costituzione repubblicana. Una scelta voluta da Roma, preoccupata sin da subito di difendere il proprio neocentralismo a danno delle aspettative e speranze del popolo siciliano. Sarebbe tuttavia sbagliato attribuire ogni responsabilità del “blocco” dello Statuto ai soli Palazzi romani e all’ascarismo di quei parlamentari siciliani che quei Palazzi hanno, nel tempo, utilmente frequentato. La classe dirigente isolana, tranne qualche eccezione e alcuni rari tentativi di sussulto autonomista, ha trovato più comodo concepire la “specificità” dell’Isola non come una assunzione di responsabilità ma come un privilegio, senza sapere o volere cogliere il potere legislativo come una straordinaria opportunità per consentire alla Sicilia di ridurre l’impressionante divario con le ricche regioni del Settentrione d’Italia.
Oggi il tema si pone in termini di crudo realismo: come possiamo investire sulla nostra natura di “Regione speciale” per tentare di recuperare parte del tempo perduto nei decenni passati e “inventare” una strategia di crescita e di sviluppo, libera da ogni sciocco rivendicazionismo? Tutti gli osservatori economici ci dicono che da soli i settori produttivi tradizionali non bastano a far decollare il nostro Pil: da trent’anni restiamo inchiodati in coda alla classifiche delle regioni italiane.
Il limite che ci portiamo dietro come una zavorra è la condizione di marginalità e perifericità della Sicilia rispetto all’Europa. Per superarlo serve ritagliarci una nuova “centralità” nel bacino mediterraneo, avere l’ambizione di candidarci ad essere la piattaforma logistica di quell’area, tornata ad essere luogo di transito e di scambi. Per farlo servono alla Sicilia quelle infrastrutture strategiche che lo Stato ha solo promesso e che Palermo con poca convinzione ha sollecitato. Opere che facciano muovere velocemente persone e merci.
Al governo Draghi, come ai precedenti, non chiediamo solidarietà, né gesti di carità, ma la dotazione di infrastrutture capaci di rendere appetibile ed attrattiva la nostra Isola agli investitori. Tutto il resto lo faremo noi siciliani. Se la insularità ci costa oltre sei miliardi l’anno, abbiamo il diritto di chiedere il collegamento stabile nello Stretto? Se i nostri treni viaggiano a 80 chilometri l’ora è giustificato chiedere l’alta velocità anche da noi? Se l’autostrada si ferma a Castelvetrano, è troppo sperare che prosegua fino a Gela? Se le navi da Suez vanno verso Gibilterra, è assurdo pensare che potrebbero attraccare al porto di Augusta, una volta potenziato?
Per avviare tale strategia non servono contrapposizioni con Roma o con Bruxelles, ma una interlocuzione istituzionale alimentata da sano realismo. In questa direzione ci sarebbe di aiuto la tanto attesa revisione dello Statuto, rendendolo adeguato alla nuova dimensione costituzionale comunitaria e nazionale. Ma serve anche abbandonare del tutto la logica dell’assistenzialismo e del familismo – che ha prodotto solo povertà, ingiustizie e contiguità opache – e guardare alle imprese come fonte di vera ricchezza.
La svolta si può e si deve operare, forti del ruolo di Isola “di frontiera” cui è chiamata la Sicilia, facendo di tale condizione geografica una risorsa politica ed economica e non più un limite. Ma occorre la piena condivisione di tutti, classe dirigente politica e burocrazia, innanzitutto. Perché da solo nessun governo della Regione non potrebbe mai vincere questa sfida. Che va affrettata proprio adesso, dopo la drammatica pandemia che ci ha messi duramente alla prova. Del resto, la Storia ce lo insegna: le grandi stagioni della rinascita seguono sempre devastanti calamità. Non sciupiamo anche questa straordinaria e forse ultima occasione.
* presidente della Regione siciliana
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