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Pd Sicilia, Faraone il nuovo capo come nella Fattoria degli animali

Di Mario Barresi |

Per impersonare Vecchio Maggiore l’unico all’altezza che ci viene in mente è Emanuele Macaluso. Il padre nobilissimo della sinistra siciliana, al telefono dalla sua casa di Roma, ci gela: «Ma io questi qui manco li conosco… So a stento qualche nome, ma davvero non li seguo… Non è per non risponderle: di Pd siciliano, io non mi interesso…».

Altro che romanzo distopico. Qui alla distorsione siamo. La fattoria degli animali comincia con una pesante assenza. Che poi, a pensarci bene, non è casuale. Perché il fatto che non ci sia più (e negli ultimi anni non c’è mai stato) un vecchio saggio, molto sognatore e pure un po’ realista, a dire che «tutto ciò che ha due gambe è malvagio e tutto ciò che ne ha quattro è buono», alla fine, ti spiega perché la prateria del Pd siciliano è diventata una giungla.

Certo, si potrebbe anche ironizzare – fra Piccionesse, Faraone, Lupi e Barbagalli – sullo Zeitgeist del piddì; ma qui la questione non è ornitologica né zoologica, forse solo onomatopeica. Giammai lombrosiana, ci mancherebbe altro, nonostante le malizie.

Partiamo dalla fine. Domenica non ci sarà nessuna festa della democrazia. Niente primarie, niente voto ai gazebo. Davide Faraone sarà segretario regionale del partito. Nel modo peggiore, come mai nemmeno lui – e dire che gli piace assai vincere facile – avrebbe voluto. Teresa Piccione s’è ritirata: «Queste sono le primarie di un altro partito», dice la candidata lupiana (forse sin troppo per allargare la staccionata ad altre specie anti-renziane) alludendo al trasloco di Matteo Renzi en marche, seppur con qualche retromarcia verso una Cosa Bianca.

E potrebbe essere lui il fattore Jones – come se fosse Renzi, ma non lo è – l’uomo che, ebbro di se stesso, sfrutta gli animali senza ritegno, eppure li ha cresciuti e in passato tenuti ben pasciuti: siamo tutti-renziani-tutti, era il corale verso delle Leopolde, amplificato negli anni del più fulgido potere. Poi arrivò il giorno delle liste per le Politiche, e a llora non ci fu da mangiare per tutti, né tutte le mucche furono munte.

E fu la rivoluzione. O quasi. Ora, con tutto il rispetto per i maiali di Orwell, è davvero difficile trovare un Napoleone, il personaggio che spicca sugli altri, anche per la sua determinazione spietata e per la capacità di persuadere i suoi simili, compensando con l’eloquenza anche una vaga mancanza d’intelligenza. Magari guardando all’epilogo della storia delle primarie (che lo vedono vincitore senza vinti, eletto senza elezioni) potrebbe essere lui – come se fosse Davide Faraone, ma non lo è – il segretario proclamato in nottata. Che poi con il suo amico-nemico Palla di Neve – come se fosse Peppino Lupo, ma non lo è – magari c’era un tacito accordo per continuare a governare assieme la fattoria dem siciliana, magari mettendo in disparte l’altro triumviro designato: Clarinetto – come se fosse Luca Sammartino, ma non lo è – in apparenza un propagandista di Napoleone-Faraone, ma che in fondo gioca la sua partita personale. Parla poco, per mezze verità. E, con la sua massa enorme di voti, fornisce le illusioni che aiutano tutti gli altri a sopportare la durezza esistenziale della fattoria. Lo trattano come un estraneo, ma lui prende ogni giorno più potere. E quando – per quel venticello forzista e moderato che pervade la fattoria al di qua dello steccato – qualcuno dei maiali assume sembianze umane-miccicheiane-cardinalizie, cominciando a reggersi sulle zampe posteriori, Clarinetto è già pronto a modificare lo slogan, ormai decrepito, lasciato in eredità dal Vecchio Maggiore: prima era «quattro gambe buono, due gambe cattivo», oggi può diventare «quattro gambe buono, due gambe meglio…».

Chissà come finirà questa storia. Che è già triste prima che finisca di essere raccontata. Anche perché c’è chi come Gondrano – come se fosse Antonello Cracolici, ma non lo è – il cavallo umile ma essenziale per il sostentamento della fattoria. «Lavorerò di più, lavorerò di più», va ripetendo. In rapporti altalenanti con Palla di Neve-Lupo, con cui ha condiviso alcune idee. A partire dall’ultima, che rinnegando i precetti del fattore Jones-Renzi, è fondata sul progetto (zingarettiano) di costruire un mulino alimentato a energia elettrica per migliorare la vita nella fattoria.

Ma entra in rotta di collisione con Napoleone-Faraone, che gli sguinzaglia contro i cani da guardia, allevati come sua polizia privata, costringendo il povero Palla di Neve alla fuga, additato da tutti – soprattutto nel gruppo all’Ars – come il «sabotatore», che così diventa il nemico invisibile a cui addebitare ogni responsabilità. E poi il segretario vincente consumerà la sua vendetta finale: attacca il mulino delle primarie, nel frattempo ricostruito con fatica dagli speranzosi adepti di una nuova era zingarettiana, con la silenziosa dinamite delle commissioni congressuali (a Roma e a Palermo) e lo distrugge, grazie all’inconsapevole complicità di Mr. Frederick – come se fosse Gianfranco Miccichè, ma non lo è – un altro fattore che ha truffato Napoleone.

In questo contesto c’è anche il povero Gondrano-Cracolici: resiste stoicamente anche dopo l’addio del suo puledro preferito – come se fosse Antonio Rubino, leader dei Partigiani Dem che appoggia Faraone, ma non lo è; anche perché nella favola non c’è – e finisce ferito dalla dinamite moderata, perdendo il vigore che aveva fatto di lui il più infaticabile lavoratore della fattoria. Il nuovo segretario lo venderà a un macellaio del Nazareno, dicendo a tutti gli altri che è andato a curarsi in un posto lontano. Soltanto Beniamino – come se fosse Mirello Crisafulli, ma non lo è – il vecchio asino che ha imparato a leggere sa cosa c’è scritto sul furgone che condurrà l’ex amico al macello. «Gli asini hanno una vita lunga. Nessuno di voi ha visto un asino morto», dice con cinica rassegnazione, e con un certo compiacimento. Tacciono, invece, gli altri: i cani e le pecore, le galline che fanno lo sciopero delle uova (ma poi cedono a Napoleone), i topi e i conigli dapprima rintanati fra gabinetti assessoriali e sottobosco di sottogoverno.

Né possono cambiare il corso delle cose gli altri personaggi minori. A partire dalla cavalla Berta – come se fosse Teresa Piccione, ma non lo è – la figura materna e rassicurante della fattoria, sempre pronta a mostrare gentilezza. Talvolta sfruttata inconsapevolmente, se la prende più degli altri, davanti ai soprusi di «primarie senza regole per l’elezione di un segretario che forse è di un altro partito». Ma non può farci nulla.

E il Monte Zuccherocandito, il paradiso terrestre della favola, resta in realtà un’illusione alimentata da Mosè – come se fosse Fausto Raciti, ma non lo è – il corvo domestico a cui Napoleone consente di fare ritorno nella fattoria.

La scena finale è inevitabile: maiali e uomini si mischiano. E nell’ultima notte s’ubriacano mentre giocano a carte nella commissione regionale per il congresso, litigando furiosamente per i punti. Gli altri animali – migliaia di militanti del Pd, delusi per il flop delle primarie – non riescono più a distinguere gli uni dagli altri. Gli ideali della rivoluzione sono stati cancellati. E con essi tutte le regole lasciate loro dal Vecchio Maggiore. «Tutti gli animali sono eguali», era il dogma dei dogmi. Diventato, giocoforza, così: «Tutti gli animali sono eguali, ma alcuni animali sono più eguali degli altri». Che sembra quasi l’ingrato destino dell’«uno vale uno» dei grillini. Ma quello è Casaleggio, non Orwell. Tutt’altra favola.

Twitter: @MarioBarresi

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