Le “formichine” che, silenziose quanto operose, nel centrodestra continuano a lavorare alla “tana” anti-Musumeci condividono una speranza: che la partita sul sindaco di Palermo si chiuda, con la vittoria di Roberto Lagalla, al primo tempo. E cioè proprio nella data, il 13 giugno, indicata da Giorgia Meloni come ultimatum («non andrò oltre») per chiudere – magari senza nemmeno aprirlo – il «dibattito» inutile sul governatore uscente che secondo lei va ricandidato. «Confido che non si dovrà andare da soli». Una prospettiva che diventa sempre meno minacciosa e più strategica. Certo, si dovranno pesare i voti delle liste uniche Fratelli d’Italia-DiventeràBellissima a Palermo e Messina, in entrambi i casi stimate come «fortissime».
Eppure, in attesa del riscontro delle urne, sul tavolo della leader patriota c’è un altro dato incoraggiante: nella parte segreta di un sondaggio distribuito negli scorsi giorni nella «versione per la stampa» Nello Musumeci sarebbe competitivo, in un testa a testa con il candidato giallorosso, anche se corresse senza gran parte del centrodestra schierato su un altro candidato. Altre rilevazioni in corso: nulla è lasciato al caso.
Sabato, in alcuni momenti riservati del blitz nell’Isola, Meloni ha fatto il punto con i siciliani di cui si fida di più. Ed è stata aggiornata nei dettagli sullo scenario delle Regionali. La leader di FdI sa bene che, se a Palermo non si dovesse andare al ballottaggio, il fronte No-Nello interromperebbe i «tentennamenti» sulle «alternative» che lei stessa ha «chiesto apertamente, ma nessuno le ha». E Meloni conosce anche il nome più probabile che le verrà offerto al posto del governatore: Raffaele Stancanelli. Proprio un uomo di FdI, il quale – nonostante il consenso di molti big siciliani della coalizione – «non farebbe mai nemmeno mezzo passo senza il consenso del suo partito», dicono tutti. L’eurodeputato, sabato alla kermesse di Palermo, s’è reciprocamente ignorato con Musumeci.
I leader regionali (col consenso di Matteo Salvini e di Silvio Berlusconi tramite Licia Ronzulli) hanno dunque come obiettivo principale il cambio di cavallo in una corsa che sarebbe comunque di una coalizione in versione classica. Non tutti, a dire il vero, con lo stesso afflato. Fra i meno convinti dell’“operazione cavallo di Troia” in casa Meloni c’è il segretario regionale della Lega, Nino Minardo. Che resta un nome in tasca di Salvini per Palazzo d’Orléans. Negli ultimi tempi si registra un certo disincanto anche da parte di Raffaele Lombardo. «Per motivi misteriosi», sibila un alleato ricordando «l’accordo su tutta la linea» nell’ultimo vertice romano dal Capitano, col sospetto che l’ex governatore continui a pensare a Massimo Russo. Un altro epistemologo del retropensiero lombardiano azzarda: «Il tatticismo diabolico di Raffaele è inversamente proporzionale alla consapevolezza della sua forza elettorale».
A questo punto, a prescindere dalla posizione degli Autonomisti, si aprirebbe comunque un sottilissimo gioco psicologico-politico. Nessuno vorrebbe rompere, ma – a meno di conversioni nell’uno o nell’altro senso – il risultato sarebbe una rottura che tutti continuano a ritenere «disastrosa» a pochi mesi dalle Politiche ma che nessuno sembra interessato a evitare.
Una partita a scacchi, con mosse e contromosse, che però non riguarderebbe soltanto il centrodestra. Perché «se la Meloni rompe, io ho il diritto e il dovere di provare ad allargare», è lo schietto refrain dell’ultimo giro di telefonate di Gianfranco Miccichè. Che, approfittando del clima più rilassato del ponte festivo, sonda non soltanto gli alleati della coalizione. Certo un approccio con Giancarlo Cancelleri, probabile anche un confronto con alcuni vertici del Pd siciliano. Con tutti il viceré berlusconiano di Sicilia gioca a carte scoperte («questa cosa però io non posso farla senza la Lega»), correndo il rischio della forte perplessità di alcuni interlocutori. A prescindere dal consenso dello stesso Salvini.
Ma è solo un caso che questo disperato tentativo di proporre un modello trasversale (sul nome, da Ursula a Draghi, passando per Giuditta, ci arrendiamo…) avvenga proprio quando le primarie del centrosinistra slittano fra le polemiche? La presentazione dei candidati non sarà più, come previsto all’inizio, entro il 10 giugno, ma è stata spostata fra il 23 e il 28. Dopo il primo turno delle Amministrative, ma anche dopo la resa dei conti nel centrodestra su Musumeci. E magari è un’altra coincidenza che proprio ieri vada in scena l’ennesimo scontro sulle regole. Già scritte dal tavolo tecnico, ma ancora in attesa della bollinatura politica. L’oggetto del contendere sono i gazebo. Anthony Barbagallo li vuole con schede e matite in stile Pd: «Chi esce da casa per esprimere la propria scelta deve poterlo fare anche in modo tradizionale». Ma Nuccio Di Paola immagina i 30 banchetti come una «semplice estensione dell’online: un punto di riferimento, soprattutto per gli anziani, per votare con l’ausilio di totem e tablet, ma comunque nella piattaforma web». Il capodelegazione grillino scandisce che «sicurezza e trasparenza del voto sono imprescindibili». L’ultima provocazione agli alleati o un copione concordato?
Nell’autoproclamato «fronte progressista» (dove Enrico Letta non ha dato il via libera definitivo alle primarie e Giuseppe Conte continua frenare) c’è chi comincia a essere convinto che «queste primarie non si faranno, perché in fondo le vuole solo Claudio Fava». C’è la freddezza che continua ad arrivare dall’entourage di Cancelleri, c’è anche l’allarme rilanciato in alcuni ambienti dem palermitani sul fatto che «la nostra migliore candidata potrebbe non voler fare le primarie». Il riferimento è a Caterina Chinnici, data talmente per scontata dal partito da suscitare la stizzita reazione di un euro-collega. «Se c’è la Chinnici allora mi candido anch’io… E vediamo chi vince», l’ultima confessione di Pietro Bartolo ai suoi, rafforzata dal sostegno di Mario Giro, presidente nazionale di Demos.
La dura posizione del “partito di Sant’Egidio”, oltre a far aleggiare lo spettro di un derby fratricida nel Pd, apre però un altro squarcio trasversale. Quello del «federatore dei moderati». Una figura che coinciderebbe, in entrambi gli schieramenti, se si avverassero due condizioni: la rottura di Meloni nel centrodestra e la cancellazione delle primarie del centrosinistra. Un candidato che, senza le ali estreme delle due coalizioni, potrebbe «fare la sintesi fra sensibilità diverse». Negli scorsi giorni, dopo le consolidate tentazioni in rosa di Miccichè (Barbara Cittadini e Patrizia Monterosso) è venuto fuori un altro autorevole esponente della “parrocchia” del nuovo presidente della Cei: Emiliano Abramo. Tutt’altro che un pettegolezzo, visto che il leader etneo di Sant’Egidio in questi giorni ha incontrato a Palermo il presidente dell’Ars e ricevuto a Catania la visita del capogruppo grillino Di Paola. Ma Abramo, che gode di una stima trasversale, non convince tutti sul fronte dell’efficacia elettorale.
Ed ecco che – tanto nei No-Nello più aperti alle sperimentazioni, quanto fra gli aspiranti sabotatori delle primarie giallorosse – nelle ultime ore si sussurra un altro nome. Pesantissimo, tutt’altro che scontato. E quindi da tenere coperto fino all’ultimo. Si tratta di Bernardo Mattarella. Avvocato palermitano, classe 1959, ex deputato regionale del Pd, figlio di Piersanti (presidente della Regione ucciso dalla mafia) e nipote di Sergio, presidente della Repubblica. Un sogno proibito. E non solo perché il diretto interessato è inconsapevole di essere evocato in questo contesto. Ma anche perché Mattarella Jr. è stato già sondato, con molta discrezione, come candidato sindaco di Palermo da Pd e M5S. Con esito negativo: senza arrivare allo scontato garbato rifiuto, è stato un esponente giallorosso molto vicino alla famiglia Mattarella a far notare agli alleati «l’inopportunità di tirare dentro una competizione elettorale il nipote del capo dello Stato».
Un ragionamento che varrebbe pure per le Regionali. Facendo svanire i sogni di chi sostiene che sia «il candidato a cui nessuno può dire di no». Per una Große Koalition in versione sicula con le sarde, o più semplicemente per far saltare il banco delle primarie.