Scena madre. Palermo, Palazzo dei Normanni. Interno pomeriggio, lo scorso 12 gennaio.
S’è da poco concluso il voto sui grandi elettori per il Quirinale.
Lo spoglio è a buon punto. E si sta per consumare lo sfregio dell’Ars a Nello Musumeci.
Il clima è pesante. A ogni scheda con la diabolica accoppiata gialloazzurra Di Paola-Miccichè il volto del governatore si fa sempre più cupo.
Sala d’Ercole è un suk dove gli aliti goderecci dei «vigliacchi» e degli «scappati di casa» si mischiano, senza alcun distanziamento sociale, con i sospiri atterriti e rabbiosi dei lealisti della maggioranza.
Laggiù, in fondo ai banchi, c’è un divanetto di pelle verde. Dal quale – come se fosse la collinetta da cui godersi lo spettacolo dopo aver premuto il telecomando – alcuni esponenti della maggioranza osservano. In disparte.
Proprio lì davanti c’è un quadrupede. Una delle 54 installazioni disseminate fra sale e cortili del palazzo. Branco di cani, il titolo della mostra.
Forse è un segugio, c’è chi dice un setter, ma sembra un bracco italiano. Dà le spalle al banco della presidenza. Come se non gli importasse nulla del delirio collettivo tutt’attorno.
Ma il cane è abbastanza ingombrante da far sì che un commesso dell’Ars – lui sì, invece, molto interessato agli eventi – inciampi sulle zampe bronzee.
Casca (come già successo al grillino Antonio De Luca), proprio quando si ufficializza lo sgambetto a Musumeci: solo terzo fra i delegati regionali, sfiduciato dalla sua maggioranza.
Il goffo dipendente in divisa resta a terra per qualche istante. «Nello si dimette, andiamo a votare il 10 aprile», urla già qualcuno del Pizzo Magico. E lui, il commesso, emette la più palermitana delle sentenze.
«Murìu u cani», ghigna rialzandosi.
(I diritti d’autore sull’aneddoto vanno riconosciuti a un deputato regionale con verve da sceneggiatore sorrentiniano)
È l’alfa e l’omega della crisi del governo regionale. L’inizio della fine, secondo gli apocalittici. Un evento da cui non si può più tornare indietro, per gli integrati. L’incidente di Sarajevo che i No-Nello aspettavano da tempo. «Chiedo la parola», dice il governatore con voce tetra rivolto all’arcinemico Gianfranco Miccichè. Che invece butta la palla in tribuna: seduta sospesa, poi rinviata. «Se l’avesse fatto parlare ce ne andavamo tutti a casa», ricostruisce un musumeciano doc.
Ma il presidente, un paio d’ore dopo, ci ripensa. E «non lascia, raddoppia, rilancia» dice parlando di sé in terza persona nell’ormai celebre video social. «Azzero la giunta», giura con gli occhi spiritati.
Si apre la crisi. Anzi no. «Non so di quale crisi stiamo parlando», dirà ai giornalisti una settimana dopo. Tutto derubricato: quel «voto anomalo», scandisce, «mi impone la necessità di aprire una verifica».
Via alle consultazioni. Con i big regionali del centrodestra, «ma anche con i leader nazionali che incontrerò a Roma». Il vertice-clou è con Giorgia Meloni. Che, materialmente, non c’è. Ma è come se ci fosse. Perché detta alle agenzie, una settimana dopo, la nota in cui definisce «naturale» la ricandidatura di Musumeci, sancendo l’alleanza fra FdI e DiventeràBellissima.
Si concludono i colloqui con gli alleati siciliani. Aperti dal faccia a faccia con Miccichè. Schietto fino alla brutalità: «Se ti vuoi suicidare, fai pure. Noi non ti appoggiamo». Più diplomatici (e ipocriti?) gli altri. Svicolano sul tema ricandidatura. E, sulla giunta, tutti in coro: «Nello, lasciala com’è». Sottinteso: se l’azzeri, non rientriamo.
E così, fra la sempre latente minaccia di dimissioni e il piano B di un «governo elettorale» con i fedelissimi, il gioco dell’oca della Regione finisce dritto sulla casella di partenza.
Il governatore oggi torna sul luogo del delitto. A Sala d’Ercole, alle 16, per fare quel discorso che poi non ha mai fatto. Vorrebbe che fosse un soliloquio, ma la conferenza dei capigruppo si oppone: «Allora parli su Facebook». Compromesso: discorso del presidente, dieci minuti di intervento per ogni gruppo, diritto di replica finale.
Musumeci, i discorsi, li sa fare. In piazza così come sullo scranno. È il pezzo forte del suo repertorio politico. Virgola, punto, punto e virgola. Lima tutto – foglietto e biro, a casa, dal weekend fino a ieri mattina – comprese le pause teatrali in cui è secondo soltanto a Celentano.
E il contenuto? «Non se ne sa nulla: sarà un discorso al buio», fanno spallucce persino gli alleati più fedeli. Fino a ieri sera. Quando, convocata con un sms garbato quanto solenne, si riunisce d’urgenza l’azzeranda giunta.
«Tutti i partiti mi hanno confermato la fiducia», la premessa. E dunque azzerato l’azzeramento.
«Resta tutto com’è», il verdetto finale. Mentre il presidente lo pronuncia, a qualcuno dei suoi 12 apostoli magari scappa pure un pugnetto d’esultanza sotto il tavolo.
«Io sono un uomo responsabile e coraggioso», l’autocoscienza ostentata. Con l’ammissione di «una reazione forse un po’ scomposta», motivata però da quell’«umiliazione che ho dovuto subire in Assemblea».
«C’è da lavorare a testa bassa, i siciliani aspettano risposte», la linea istituzionale. E sul tavolo la lista delle priorità: il bilancio, la finanziaria, la gestione del Pnrr, la programmazione europea 2021/27… Gaetano Armao annuisce, sembra alquanto sollevato.
«Del resto ne parliamo a fine aprile», la prospettiva low profile. Che contempla pure il rebus sulla ricandidatura: «Deciderà la coalizione», sillaba agli esponenti di partiti che già lavorano con sfrontatezza al “dopo di lui”.
«Non si tocca», l’ennesima difesa di Ruggero Razza, scalpo che il presidente non concederà mai: «Ha sbagliato qualcosa nel metodo, ma sta facendo bene, l’ha detto pure Lombardo che al posto suo ci vorrebbero quattro assessori!». E Tuccio D’Urso? «Vedremo…».
Bene, bravo, bis. O forse no. Gli assessori si congratulano. «È una giunta di veri amici», si lascia scappare qualcuno. C’è serenità, quasi gioia.
E tutto il resto fuori.
Twitter: @MarioBarresi