L’ex ministro socialista Salvo Andò: «Tangentopoli era preparata, qualcuno ci disse: “Hanno deciso…”»

Di Mario Barresi / 17 Febbraio 2022
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Non è il soldato giapponese nella giungla, ignaro che la guerra – trent’anni dopo – è finita. Non lo è, Salvo Andò. Che quella guerra impari l’ha combattuta (e persa) nell’ultima trincea della Prima Repubblica. «Mani Pulite è stato un fallimento. E le macerie dei sistemi politico e giudiziario sono sotto gli occhi di tutti». 


Ministro della Difesa proprio negli anni di Tangentopoli, capogruppo alla Camera, deputato per quattro legislature, leader in Sicilia. Andò fu tutto, col Partito socialista. Anche arrestato, processato e assolto. Era assieme al figlio Bobo, quando arrivò la notizia della morte di Bettino Craxi ad Hammamet. «Ho ancora forte dentro di me quell’emozione forte, almeno quanto l’impressione che mi fece vedere in che condizioni fosse il suo corpo all’obitorio». Ma a quel tempo, era l’alba del nuovo millennio, il cadavere politico del Psi era stato tumulato da tempo. Sfregiato da una raffica di inchieste e già condannato in piazza. «Mi ricordo che un giovane Antonio Tajani, all’epoca cronista politico del Giornale di Montanelli, mi fece un’intervista quasi due anni prima dell’arresto di Chiesa». Un episodio che l’attuale coordinatore nazionale di Forza Italia gli rammentò una decina di anni fa. «Mi disse che gli ero sembrato fuori dal mondo e che quando propose il pezzo in redazione a momenti lo prendevano per matto».


«Io avevo avuto dei segnali, delle percezioni ben precise», racconta oggi a La Sicilia  Andò. «C’erano degli ambienti, alcuni salotti romani e altri beninformati nei palazzi, che è come se si aspettassero che scoppiasse da un momento all’altro quello che poi scoppiò». In quel momento il ministro siciliano non era uno qualunque nel partito. E rivela di aver parlato delle sue “visioni”. «Andai da Beria di Argentine, uno dei più grandi magistrati italiani. E poi, con la scusa di condividere alcune scelte di politica internazionale, in quel periodo era caldo il tema dell’embargo del Kuwait sull’Iraq, andai a far visita al cardinal Martini. Parlammo delle preoccupazioni del Vaticano sul fronte mediorientale a un certo punto io gli chiesi: “Sua Eminenza, che si dice a Milano?”. Lui non mi disse nulla di esplicito, ma la mia idea è che sapesse tutto. Anche perché le voci erano già diffuse in alcune correnti della Dc di Milano».

 


Ma poi esattamente trent’anni fa, il 17 febbraio 1992, l’arresto del «mariuolo» Mario Chiesa innescò la catena infinita di Tangentopoli. «Frigerio (Gianstefano, ras della Dc milanese) una sera ce lo disse: “È inutile che vi nascondete, sanno già tutto”». E su questo aspetto il docente originario di Giarre espone sua nitida versione: «C’erano già state alcune indagini importanti in materia di corruzione e di finanziamento illecito dei partiti, ben prima dell’arresto di Chiesa. Due anni prima c’era stata Duomo Connection (l’inchiesta sulle infiltrazioni mafiose a Milano in cui la pm Ilda Boccassini collaborò con Giovanni Falcone, ndr) e altre indagini a cui non era stata data l’enfasi di Mani Pulite».

 


Ma perché proprio allora? Chi è che schiaccia il bottone? Racconta Andò: «Avevo un ottimo rapporto con Parisi (Vincenzo, capo della polizia dal 1987 al 1994), che fu una specie di pigmalione per Di Pietro. Una volta mi disse a denti stretti: “S’è deciso così”». Ma la risposta decisiva, dopo le elezioni del 1992, la fornì Paolo Cirino Pomicino: «Ci disse: “Qui salta tutto, perché hanno deciso di andare avanti. Loro non trattano, non vogliono trattare”. “Ma loro chi?” gli chiedemmo. E lui: “De Benedetti e gli amici suoi”». Un aneddoto che conferma in anticipo (questo colloquio con Andò l’abbiamo registrato martedì pomeriggio)  le rivelazioni che lo stesso Cirino Pomicino ha consegnato ieri al Giornale: «Nella primavera del 1991 venne a trovarmi Carlo De Benedetti (…). Mi spiegò che con altri imprenditori legati al salotto buono di Enrico Cuccia voleva modificare gli assetti politici del Paese e spostarli verso i post-comunisti che al congresso di Rimini, in febbraio, avevano fondato il Pds e si erano convertiti su posizioni riformiste».


Mani Pulite è ormai finita sui libri di storia. «Ma dovremmo riscriverla, questa storia», ci dice Andò, che a metà degli Anni 90 è tornato all’Università come docente di diritto pubblico e costituzionale a Catania e poi a lungo come preside della Kore di Enna. Una storia in cui anche i vincitori fanno delle ammissioni. «Quando persino Borrelli si chiede “ma ne valeva la pena?”, bisogna riaprire una riflessione non solo su quegli anni – scandisce Andò – di abusi nella convinzione che un corpo burocratico dello Stato potesse modificare l’assetto democratico in nome di una presunta battaglia per la legalità, ma anche sugli effetti che quegli eventi hanno avuto sugli ultimi trent’anni di storia del nostro Paese».

Andò addita «l’errore del Pci-Pds», che «ha ritenuto che il falò giudiziario potesse realizzare la svolta e invece, di fronte alla gioiosa macchina da guerra di Occhetto, cominciò l’era di Berlusconi. Che, sulla scia del leaderismo senza partiti, ci ha portati dritti al populismo e al sovranismo». L’ex ministro parla della magistratura – attaccando sulle «devianze del Csm»  e sugli «abusi di un correntismo irresponsabile» – e della «degenerazione della politica, divenuta una partitocrazia senza partiti». E l’insieme delle due cose lascia sul terreno «una corruzione sistemica e capillare». L’ex ministro rivendica che «nel sistema correntizio dei vecchi partiti si esercitava comunque un controllo sul denaro che arrivava e che comunque veniva speso per finanziare attività di formazione politica e di approfondimento culturale che oggi non si fanno più». Si stava meglio quando si stava peggio? «Mi limito a dire che oggi c’è un prendi-prendi generalizzato e diretto, dall’usciere al direttore generale. Niente più tangenti, o molto poche, e tante consulenze e altre dazioni».


Andò si fece pure il carcere. Arrestato per voto di scambio con il clan Santapaola, assolto nel 2000. A processo anche per le tangenti di Viale Africa, condannato assieme all’ex presidente della Regione, Rino Nicolosi, e al capocorrente andreottiano Nino Drago, poi uscito indenne, dopo un lungo rimpallo fino in Cassazione, per subentrata prescrizione. «Anche i magistrati che vivevano le realtà locali – si limita a ricordare – non stavano sulla montagna. E quando partì la slavina da Milano, furono in pochi a non voler partecipare alla festa. Ognuno diceva: “Ci sono anch’io”. Compresi i magistrati che ci avevano chiesto favori».


È tempo di pacificazione? Magari no, perché la ferita brucia ancora. Eppure, «ora che la marea è bassa, si vede finalmente il fondo marino», scandisce Andò.  E al giurista, prima e dopo essere stato un raffinato politico, tornano in mente le parole che gli ripeteva spesso il professore Giuseppe Giarrizzo: «La storia non fa allievi, perché si ripetono sempre gli stessi eventi».
Twitter: @MarioBarresi

Pubblicato da:
Ombretta Grasso
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