Massimo Russo, abdichi per un istante alla ragione e dia spazio al sentimento. Cos’ha provato, di pancia, nell’attimo in cui ha saputo dell’assoluzione di Raffaele Lombardo?
«D’impeto ho provato un senso di liberazione. Mi sono sentito liberato da un peso che avevo già sopportato, ma che sentivo ancora».
Quello di un magistrato legato a un presidente della Regione che rischiava una condanna per mafia?
«Quello di un uomo che ha condiviso con Lombardo un’esperienza di governo interrotta dalle dimissioni a seguito dell’inchiesta. E che decise di non mollare un governo regionale che aveva avviato un corso positivo e innovativo».
Ora le verrà sin troppo facile dire che non ha mai sospettato nemmeno per un attimo che Lombardo avesse contatti con la mafia…
«Non lo dico ora, l’ho detto sempre. Io la mano sul fuoco non la metto mai per nessuno. Sono un razionale, un idealista pragmatico. E di mestiere non faccio il farmacista. Prima di fare l’assessore avevo assunto le mie informazioni: Lombardo non prende mazzette e non è colluso con la mafia. Mi sono fidato delle mie competenze, ma anche delle mie sensazioni. Dopo la notizia sull’inchiesta ammetto che ero turbato, anche un po’ spaventato. Ebbi con Lombardo un confronto durissimo. Cercavo di capire se si stesse difendendo da accuse infondate o se provasse, con le unghie e col sangue, a scrollarsi di dosso responsabilità concrete. Gli dissi: “Se io mi rendo conto che c’è qualcosa, io le pianto i chiodi. Se non è così, invece…”, sottintendendo che resterò al suo fianco. E lui fu convincente».
Lei aveva anche un altro strumento per capire: il suo mestiere. Che processo è stato quello a Lombardo?
«Questa domanda mi fa ricordare che in questi anni ho dovuto contenere il mio diritto di critica e di parola (e gli scappa una risata amara, ndr). Le rispondo, però, senza filtri. Quello a Lombardo è un processo da cui anche il cittadino comune rimane basito. Un processo che s’è aperto con un’imputazione coatta, a mia memoria unica nel suo genere per un reato così grave, che ribaltò una doppia richiesta d’archiviazione ben scritta e motivata. Corroborata, tra l’altro, da un’intervista dell’allora procuratore di Catania, Patanè, al Corriere della Sera, in cui il collega ribadiva che non c’erano prove né riscontri».
In Procura ci fu uno scontro su quella richiesta di archiviazione. E Lombardo in primo grado è stato condannato.
«Questo sta nella dinamica dei rapporti dentro un ufficio e nella fisiologia del processo. Ma c’è un limite invalicabile. Anzi: due. Il primo è che un processo si deve fare quando c’è la ragionevole certezza di avere elementi per provare la responsabilità dell’imputato oltre ogni ragionevole dubbio. Il secondo, nella fattispecie, è la rigorosa applicazione dei criteri imposti dalla Cassazione nella sentenza Mannino del 2005».
Questo processo ha superato i due limiti invalicabili di cui parla?
«Ecco, questo è il tema. Ne va della credibilità della magistratura e della fiducia dei cittadini, per questo bisognerebbe fugare tutti i sospetti, spesso strumentali, di un uso distorto della funzione giudiziaria. E poi, oltre a una riflessione sui criteri di attendibilità dei collaboratori, il processo Lombardo apre lo squarcio sui tempi della giustizia. La sentenza arriva a dodici anni dall’inchiesta e l’imputato aveva scelto l’abbreviato. E il processo, in attesa delle motivazioni dell’appello-bis e di ulteriori gradi di giudizio, non è ancora finito».
Quella di assoluzione è una sentenza giusta?
«Con la sua motivazione forte “perché il fatto non sussiste”, la sentenza restituisce giustizia a questa vicenda. Ma la giustizia, che noi talvolta diamo per scontata, la può capire soltanto chi vive una dimensione di ingiustizia».
E adesso chi ripaga Lombardo?
«Questo è l’altro tema, enorme. Il magistrato è come un chirurgo con i bisturi: deve recidere il male, senza compromettere le parti sane e quelle che si possono salvare. La magistratura siciliana ha fatto cose straordinarie, nella lotta a mafiosi e corrotti ha cambiato la storia di questa terra. Ma il processo Lombardo resta un punto di inevitabile attrito tra funzione politica e funzione giudiziaria».
Uno scontro di poteri? Troppo scontato. Sia più convincente…
«Se mi sta chiedendo se penso al complotto, la risposta è no. Ma per una mia questione culturale: questo livello di spiegazione non mi soddisfa. Ma, di fronte a tutti gli elementi oggettivi di cui le parlavo prima, nel processo Lombardo c’è stato qualcosa che non ha funzionato, a partire da un corto circuito fra organi inquirenti e giudicanti, che sta nella fisiologia del processo. Resta comunque un dato chiaro: è stata interrotta una delle stagioni più innovative della storia della Regione. E per questo non è previsto alcun risarcimento».
Se fosse in Lombardo, oggi tornerebbe nell’agone politico magari ringalluzzito e con sete di vendetta?
«Non sono lui, sceglierà ciò che ritiene più giusto. Lombardo è un finto gelido che soffoca una spiccata umanità, mortificata dal peso di una vicenda che avrebbe travolto qualsiasi persona di media robustezza. Poi la politica è un virus senza vaccino: la passione ce l’hai dentro, in qualche modo devi esercitarla. Io gli consiglierei di godersi questo momento. Poi si vedrà».
Lombardo è stato assolto nel processo penale, ma non si può passare dalla demonizzazione alla beatificazione. Prima o poi, bisognerà aprire una serena riflessione sulla stagione del lombardismo. Che è stato anche occupazione militare del potere.
«Guardi, è lo stesso discorso che facevo sul mio ingresso in giunta. Io avevo la sensibilità e gli strumenti per giudicare quello che mi succedeva attorno. Nella mia esperienza di assessore abbiamo fatto una riforma epocale della sanità. E da Lombardo non ho mai ricevuto una sola sollecitazione, per un manager e nemmeno per un primario. Quando, riducendo le allora aziende sanitarie da 29 a 17 cancellai quella di Caltagirone, uno dei suoi principali bacini elettorali, lui mi chiese soltanto: “Ma è proprio necessario?”. Alla mia risposta affermativa non fiatò».
Ma la cronaca racconta di una macchina perfetta di consenso, ottenuto spesso in cambio di qualcosa.
«Le racconto un aneddoto. Una volta, vedendo che io esercitavo la mia funzione con l’impostazione da magistrato che guarda alla bontà del progetto e non al potenziale consenso o dissenso che può provocare, Lombardo mi sollecitò con una battuta: “Assessore, guardi che non siamo in Svezia…”. Ma mai nessuna pressione. Né nel mio settore, né in altri sensibili come energia e rifiuti, sui quali avevo le antenne accese. E poi di quelle giunte, con tre magistrati, un ex prefetto e commissario antiracket e docenti universitari, oltre alla mia radicale pulizia nel mondo della sanità, vanno rivendicati altri risultati sul fronte della legalità: la guerra all’affare dei termovalorizzatori, la riforma dei rifiuti, lo stop alle assunzioni, il codice degli appalti, il codice anticorruzione con Vigna…».
Insomma, da magistrato non s’è mai sentito una foglia di fico di Lombardo?
«Le ho già ricordato chi c’era in quella giunta. Più che di una foglia dovremmo parlare di una tenuta, di una piantagione di fichi. Ma pensa davvero che Lombardo fosse il direttore d’orchestra e noi tutti dei coglioni?».
A proposito. Secondo lei Lombardo ha sbagliato ad aprire al Pd, magari confidando in una “polizza di legalità” da Lumia?
«Questa è una valutazione che deve chiedere a Lombardo, e comunque non ho mai ritenuto Lumia un dispensatore di patenti di legalità. Mi ricordo una battuta di Lombardo: “Dopo di noi arriveranno i barbari…”. Mi limito a osservare che è il tempo l’elemento discretivo: devi mettere i fatti in sequenza cronologica e poi trai le conseguenze. Si passò da un governo in cui c’era un impegno concreto sulla legalità alla stagione dell’antimafia parolaia delle carriere, raccontata anche nei processi. Questa è storia. Una storia di cui io mi sono rifiutato di essere protagonista».
In che senso, scusi?
«Nel senso che, in quei giorni convulsi, qualcuno mi fece capire: se esci, se ti dimetti, agevoli certi percorsi… Sarebbe stata la via più semplice, forse anche la più redditizia per la mia carriera. Ma io, da uomo e da magistrato, coltivo il principio della lealtà: credevo che Lombardo fosse innocente e non l’ho mollato. E ho pagato un prezzo, anche per questo».
Un prezzo professionale? I suoi colleghi gliel’hanno fatto pesare?
«Una cosa mai evidente, ma l’ho percepita perché nel mio mondo certe scelte non sempre vengono digerite. Io non feci l’assessore catapultandomi dalla Procura di Palermo: arrivavo da una funzione amministrativa, al ministero. E dopo l’esperienza al governo sono tornato a fare il mio mestiere, “scontando” cinque anni fuori dalla Sicilia, a Napoli, con un figlio piccolo, senza cercare posti di sottogoverno né scorciatoie».
E ora, anche alla luce dell’assoluzione di Lombardo, non accetterebbe la candidatura a governatore?
«Le candidature non si chiedono, semmai si rifiutano. Io magari potevo prendere il posto di Lombardo, se l’avessi mollato, tradito. Bastava poco: una bella conferenza stampa di dimissioni e sarei stato imbarcato nel sistema di potere che l’ha sostituito. Ma ho detto di no. Io continuo a fare il mio lavoro, arricchito in saggezza e conoscenza anche da quell’esperienza che ha danneggiato la mia carriera. Se non avessi interrotto la mia professione di magistrato avrei potuto concorrere a posti di rilievo: procuratore di Roma, di Palermo… Ma sto bene dove sto. Convinto che il tempo sia galantuomo».
Si vocifera di una potenziale candidatura, nel centrosinistra, di una sua “doppia” collega, la magistrata ed ex assessora Chinnici, oggi eurodeputata. Sarebbe un’altra rivincita per quella stagione di governo?
«Comunque nessuno ci risarcirà per quella stagione di riformismo e innovazioni interrotta. Poi ognuno fa sempre le sue scelte. Oggi come allora. La Chinnici, dal governo Lombardo, se ne andò. Io rimasi…».