La Sicilia club per scambisti, ecco cosa ci ha detto il voto

Di Mario Barresi / 26 Giugno 2018

Apparivano fuori gioco. Almeno agli occhi degli analisti più distanti, quelli che chiamano con prefissi da fuori Stretto. Ma chi questa campagna elettorale l’ha vissuta in strada, qualche sospetto – già all’indomani del 10 giugno – ce l’aveva. E se fossero talmente fuori dagli schemi, fuori dai partiti, fuori dagli inciuci, fuori pure dall’epoca giallo-verde (e taluno anche fuori di testa) da fare fuori i loro rivali che partivano favoriti dopo il primo round?

È stato così. La pazza Sicilia degli elettori fedigrafi – quelli che scelgono Musumeci governatore; poi tributano un plebiscito ai grillini alle Politiche gialle dipinte di giallo; infine ammiccano al centrodestra e persino al redivivo centrosinistra al primo turno – stavolta si risveglia con un altro ribaltone. Innamorata dei “sindaci fuori”.

Sì, perché, pur nella diversità di contesti locali e storie personali, c’è un filo che accarezza i vincitori dei ballottaggi, fino ad avvinghiarli. A loro insaputa, ma non nel senso scajolano tanto caro all’altro nuovo collega di Imperia.

Partiamo dal personaggio dei personaggi. Quel Cateno De Luca, smutandato con la lettera scarlatta dell’impresentabilità da plurindagato poi pluriscagionato, ammanettato dopo l’elezione all’Ars e poi riabilitato. «Diventerò sindaco di Messina», disse il 1º aprile del 2017. Sembrava il classico pesce, ma – 400 comizi dopo – è stato lui a prendere tutti pesci in faccia. Convincendo la città dello Stretto (in mezzo al quale lui vuole il Ponte, subito dopo il casinò in municipio) a un azzardo ancor più azzardato del plebiscito di cinque anni fa per Renato “free Tibet” Accorinti. E allora, si può ancora ironizzare sul mazzo di fiori alla Madonna e sulla telefonata (non smentita dal Vaticano…) con Papa Francesco, o magari citare la freddura-trash più in voga in queste ore («Dino Bramanti, visto il lavoro che fa, doveva sapere che i messinesi non ci sono con la testa…»), eppure la realtà non cambia. De Luca ha saputo parlare alla pancia della pancia degli elettori. E ha approfittato di un centrodestra che, oltre alla qualità manageriale del candidato, confidava della vecchia legge della sommatoria algebrica: i voti dei Genovese’s, più quelli sottobanco del Pd, più quegli altri di…. E invece no. “Scateno”, con zero eletti in consiglio, ha sbancato il ballottaggio. Con una raffinatissima strategia comunicativa. Da imperatore del neo-populismo. Ha fatto invocare dalla sua piazza osannante un accordo con il M5S, sapendo che non sarebbe stato mai accettato dai diretti interessati perché non previsto dal manuale delle Giovani marmotte pentastellate. Ma lui, Cateno, ha detto: «O con loro o con nessuno». Auto-incoronandosi come grillino più grillino dei grillini.

E così è stato anche a Ragusa. Con Peppe Cassì, il “capitano” (della mitica Virtus di basket, giammai nel senso salviniano del termine) che in terzo tempo ha schiacciato i cinquestelle, scacciandoli dall’unico capoluogo amministrato nell’Isola. «Non faccio accordi con nessuno», il mantra dell’ex cestista ora avvocato adorato dalla Ragusa dei salotti buoni. E così è stato. Al di là dell’ingombrante simbolo di Fratelli d’Italia (più lui provava a sbiadirlo, più Giorgia Meloni glielo sbatteva in faccia); al netto dei “consigli per il voto” dispensati da Musumeci; smentendo con sdegno ogni sospetto di collaborazionismo con i modicani del petroliere forzista Nino Minardo. Cassì, ultimo aspirante sindaco sceso in campo in un’area politica molto affollata al primo turno, ha giocato una partita di difesa e contropiede. Scegliendo una squadra di assessori e assessore, fior da fiore fra professionisti e manager della Ragusa strabene. E annacquando ancor di più quegli schizzi partitici, anche grazie agli errori degli avversari. Non tanto di Antonio Tringali, presidente del consiglio della Ragusa fortino a 5stelle, uomo di compromesso dopo la congiura che ha tagliato fuori il sindaco – uscente già quando ancora era dentro – Federico Piccitto. Ma dei trombati al primo turno. Tringali non ha chiesto niente a nessuno, almeno ufficialmente. Ma gli altri – dal dem renziano Nello Dipasquale allo sconfitto del centrodestra, Maurizio Tumino – non hanno fatto nulla per nascondere la simpatia per questo cinquestelle con la faccetta da democristiano piacione. «È uno che ci puoi parlare», è la sgrammaticata speranza dei partiti derelitti. E così il “vota Antonio, vota Antonio” rilanciato fra WhatsApp e cenette fra intimi è diventato un deterrente per lo stesso elettorato potenzialmente grillineggiante. I ragusani si sono rotti le scatole di chi aveva promesso loro di entrare nel palazzo con l’apriscatole e poi è diventato un adepto dell’escatologia del potere. «Agli occhi dei cittadini Cassì è apparso più nuovo del nostro nuovo», è la chiave di lettura – chapeau – dello sconfitto.

Un’operazione che, invece, a parti invertite è riuscita ad Acireale, unico municipio vinto dal M5S oltre a Pantelleria. Nella città delle cento campane e delle cento manette, il movimento – per lungimirante scelta della deputata Angela Foti – ha puntato Stefano Alì. Grillino non ululante che è riuscito a sussurrare all’elettorato borghese di una città che si sente nobile. Battendo, per la silenziosa gioia del siculofuturista Nicola D’Agostino, il cugino di centrodestra.

Eppure, tornando in terra iblea, non ha senso chiedersi se queste elezioni le ha perse di più Piccitto come amministratore o Tringali come candidato. Le ha perse il M5S, nonostante la massiccia calata dei ministri. Aperta da Luigi Di Maio – in piazza a Marina di Ragusa a promettere che «se Antonio alza il telefono io ci sono», come fosse un Cirino Pomicino o un Renzi qualsiasi – per finire con Barbara Lezzi. E anche Giancarlo Cancelleri, del quale salviamo l’autoironia («Mi sto specializzando nell’arrivare secondo…») in questa disfatta ci ha messo la faccia. Ma forse era un destino ineluttabile: Cassì, sin dall’inizio, era più “anti-sistema” di loro. O tale è sembrato.

Essere o non essere? Meglio apparire. È il segreto del successo del terzo mattatore dei ballottaggi: Francesco Italia. La sua rimonta da outsider non ci sarebbe neanche stata, se la gioiosa macchina da guerra del centrodestra siracusano a sostegno di Paolo Reale non si fosse inceppata a causa della spocchia per una vittoria data per certa. Così, un nanosecondo dopo che l’ex assessore regionale aveva mancato la vittoria per una manciata di voti, Italia ha lanciato la sua volata. Continuando – e anzi rendendo compiuto – il miracolo politico (e comunicativo) che gli era, in parte, riuscito al primo turno. Lui, vicesindaco del renziano Giancarlo Garozzo, dopo cinque anni a Palazzo Vermexio s’è proposto come la novità. Costringendo il centrodestra di Stefania Prestigiacomo ed Enzo Vinciullo (con la new entry del mai domo Gino Foti) ad apparire, anche dopo un lustro di opposizione al Pd, come il vecchiume. Certo, loro non hanno fatto nulla per non apparirlo. Ma la vittoria di Italia è stato un capolavoro di ciò che gli amici del senatore di Scandicci, ormai quasi tutti caduti in disgrazia, chiamerebbero storytelling. Francesco ha saputo raccontare un sogno. Oltre che la storia di rampollo di una ricca famiglia, eppure startupper che s’è fatto da solo, frequentatore del jet set dei Dolce&Gabbana. Dopo che Vanity Fair lo celebrava come icona charmant della diversità, il rivale Reale, col senno di poi “perdente di successo” dopo la seconda sconfitta al ballottaggio, gli rispondeva con una foto della sua famiglia – etero, borghese, rassicurante – in bella vista sui social. Magari sarebbe stato un ottimo sindaco, l’avvocato. Ma “Ciccio” Italia ormai con la sua bicicletta era già in fuga sui sampietrini di Ortigia. Protetto da gregari di lusso, tre degli sconfitti al primo turno. Dal neo-movimentista e imperituro borselliniano di destra Fabio Granata all’alfiere della gauche ambientalista Giovanni Randazzo, passando dal candidato del Pd – del Pd! -Fabio Moschella. E alla fine l’italica mistura è stata tanto variegata da sembrare, nel suo insieme, nuova. Convincendo qualche elettore 5stelle – grazie alla domenica uggiosa, magari col placet del capo locale Stefano Zito – a non andarsene a mare. Disertori alle urne, invece, i peones delle liste realiste di centrodestra.
De Luca, Cassì, Italia. Diversi fra loro, eppure accomunati nel destino vincente dei sindaci “diversi”. Dei sindaci “fuori”, Dentro l’epoca del derby populista fra i gialli e i verdi che intanto stanno assieme nel governo giallo-verde. Se sarà un fuoco di paglia lo scopriremo presto. Ci rifiutiamo, per statuto, di propinare la solita sbobba della Sicilia laboratorio politico. Un club per scambisti, piuttosto. In cui il matrimonio coi partiti è finito da un pezzo e la fedeltà all’infatuazione per il nuovo scricchiola. È l’ora del neo-nuovismo. Sarà soltanto un flirt da inizio d’un’estate che non vuole iniziare?

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