No, stavolta la vendetta non è un piatto che si consuma freddo. Perché è caldo. Di più: un fast food, un arrusti e mancia per dirla col dialetto che piace tanto a Nello Musumeci. Sì, perché forse l’intima soddisfazione più grande, per il neo-ministro del Sud e del Mare, è proprio la tempistica dell’incarico. Il quale, anche per lui che non è un velocista, segue il ritmo di consultazioni-lampo, con l’incarico a Giorgia Meloni che accetta senza riserve e con la lista già pronta, parla per 73 secondi all’uscita del Quirinale. E già oggi c’è il giuramento: da lunedì tutti al lavoro a Roma. Oggi più che mai distante anni luce da Palermo.
E non è un cattivo pensiero – adesso che ha raggiunto un posto che è, per sua stessa ammissione, «il coronamento di una vita dedicata alla politica» – immaginare Musumeci che si accarezza il pizzetto, mentre sceglie la cravatta da indossare oggi al Quirinale (un maniaco del «nodo perfetto», lui che si dilettava a disfare e rifare il “Windsor” dei suoi uomini a Palazzo d’Orléans), pensando all’irrefrenabile lentezza di tutto ciò che ha lasciato in Sicilia. Le consultazioni con gli alleati, i vertici di maggioranza (vade retro, Satana!), il Cencelli con le sarde e con i masculini, i trabocchetti di Gianfranco Miccichè, le trattative con Raffaele Lombardo e Totò Cuffaro, il valzer dei disprezzati dirigenti regionali Magari, in cuor suo, l’ex governatore si sarebbe accollato tutto questo e molto di più, pur di restare al suo posto per «raccogliere i frutti della semina». Ma è andata com’è andata.
E a Musumeci, alla fine, è andata di lusso. «Torno a fare il militante», minacciò nel proclamare la disponibilità al famoso «passo di lato»; prima di tornare a testa bassa in trincea per la ricandidatura. «Non svendo la mia terra e il mio popolo per un posto nel Parlamento nazionale», eternò smentendo qualsiasi «baratto»; prima di essere richiamato al fronte da una telefonata, rivelata a Giuseppe Bianca su La Sicilia, ricevuta dalla leader e da Ignazio La Russa. E ora, dopo essere stato eletto senatore, è pure ministro. «Alla faccia dei cucchi», esulta un suo sfegatato fan catanese. Silenzioso e austero più che mai, nei tempestosi giorni del toto-ministri (gioco enigmistico aborrito nella versione siculo-assessoriale dal suo successore Renato Schifani), Musumeci negli ultimi giorni è stato fisso nella casella del Sud. Ieri la sorpresa: avrà anche il Mare. Sul quale la Lega si affretta a precisare che «le deleghe del ministro Musumeci non assorbiranno alcuna competenza attualmente in capo al ministero delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibile». Precisazione subito colta dal senatore dem Enrico Borghi: «Pronti, via e sono già alle mani: Salvini vuole i porti e la guardia costiera». E, se dobbiamo dirla tutta, anche il Mezzogiorno rischia di essere spogliato dei contenuti più importanti. A partire dai 75,3 miliardi di fondi strutturali Ue 2021-27. Mara Carfagna era ministra del Sud e della Coesione territoriale, ma quest’ultima delega è stata assegnata a Raffaele Fitto, così come quella del Pnrr. Resta da chiarire chi si occuperà dell’«attuazione della Missione 5 – Componente 3» del Piano comunitario, «riservata a “Interventi speciali per la coesione territoriale”»: essendo finora strettamente legata proprio alla Coesione, dovrebbe andareal titolare pugliese degli Affari europei. Musumeci potrebbe essere ministro del Sud ma senza fondi, e del Mare ma senza porti. «Quasi in versione “Linea blu” della Rai», ironizza un esponente del centrodestra siciliano, reo confesso della «passione per le cozze».
Ma Musumeci è pur sempre un ministro del primo governo guidato da una leader di destra, la prima donna premier della storia della Repubblica. Alza lo sguardo, Meloni, quando legge il nome di «Sebastiano Musumeci». L’ha perdonato da tempo per il rifiuto a entrare in FdI, «un partitino del 2-3 per cento», nel 2019. «Una grande emozione. Una grande soddisfazione, che conferma il riconoscimento del lavoro svolto in questi anni alla presidenza della Regione», confessa all’Adnkronos. Con la «grande responsabilità che affronterò con impegno e dedizione» e il ringraziamento a Meloni e agli altri leader per «la fiducia che hanno riposto in me: pronti a risollevare l’Italia». Ed è pure l’unico siciliano “residente” che siederà in Consiglio dei ministri, al netto di Adolfo Urso (Sviluppo economico), nato a Padova e vissuto a Roma da quando a 18 anni lasciò Acireale.
Una rivincita? Sì, senza se e senza ma, considerando la scorrettezza con cui Musumeci è stato detronizzato dagli alleati siciliani. Lui che «non passava mai la palla» a partiti e deputati regionali, ma comunque era primo in tutti i sondaggi sugli aspiranti candidati del centrodestra; lui che s’è detto vittima di «banditismo politico» alla prima uscita ufficiale col candidato Schifani in preda a sudorazione fredda; lui che al passaggio di consegne a Palazzo d’Orléans è sgusciato via prima del brindisi; lui che ieri non ha ricevuto le congratulazioni del suo successore, né da altri leader siciliani, eccezion fatta per l’«orgoglioso» meloniano Salvo Pogliese, pronto a rafforzare il coretto d’osanna dei fedelissimi Ruggero Razza e Giusi Savarino; lui che però è ministro mentre Miccichè lo vorrebbero al massimo sottosegretario (col niet di Meloni e La Russa) per farlo espatriare dall’Isola ed evitare altri cinque anni di balletti con la colonna sonora del Renato, Renato, Renato di Mina. Lui, Nello Musumeci, che comunque ieri ha vinto. E anche i suoi più acerrimi nemici dovrebbero farsene una ragione.
Twitter: @MarioBarresi