Ruggero Razza, non ha mai chiesto scusa per quella frase intercettata sui morti da “spalmare”. Non pensa sia arrivato il momento di farlo?
«Non ho avuto occasione, per la mia immediata decisione di dimettermi, di scusarmi, e lo faccio adesso, per la velocità con cui mi sono espresso nell’utilizzare il termine “spalmare” riferendomi ai dati di più giorni dei deceduti. Una frase infelice. Il senso ovviamente era quello di considerare prevalente l’effettiva ripartizione del dato sull’indicazione del bollettino giornaliero. Mi ha colpito la costruzione mediatica perché mi sembrava chiaro quale fosse l’intento. Qualche giorno fa, in Corte d’Appello a Catania, conclusa la requisitoria del procuratore generale, il presidente di turno ha invitato gli avvocati difensori a “spalmare” le arringhe su più udienze perché erano troppi. L’avvocato Enrico Trantino era in aula e si è fragorosamente opposto all’utilizzo del termine, con il garbo e l’ironia che tutti gli riconoscono. A parte questo, il mio sentimento di rispetto va a tutte le vittime e ai loro familiari. Ed è pari al sentimento di stima profonda per la professionalità con cui gli operatori siciliani della sanità hanno indossato il camice e la tuta e sono scesi in trincea. Gli assessori passano, loro restano».
Lei resta indagato per due episodi di falso sui dati Covid. L’inchiesta è passata da Trapani a Palermo. Ha chiesto di essere sentito. Come pensa di difendersi?
«Anzitutto l’elemento di novità emerso è legato alla valutazione sull’incidenza dei dati sui provvedimento di contenimento dell’epidemia. Abbiamo, ritengo, chiarito che la Sicilia non ha mai posticipato decisioni di rigore, ma le ha sempre anticipate. E questo penso possa essere oggi agevolmente ricostruito anche con una lettura di tutti gli atti. La mia cultura istituzionale parte dal presupposto che chi ha ruoli pubblici debba avere rispetto dell’attività dell’autorità giudiziaria. Ed io questo rispetto lo vivo doppiamente, perché la mia formazione di penalista e la mia educazione familiare e politica mi hanno insegnato che non bisogna temere un’indagine, ma si deve poter offrire a chi indaga ogni spunto utile per ricostruire i fatti. Ma dell’indagine mi sono imposto di parlare soltanto nelle sedi competenti e con gli atti. Sarebbe una grave mancanza da parte mia introdurmi nel dibattito pubblico nel corso di un’attività investigativa».
Come giudica la sua esperienza da assessore alla Salute? C’è qualcosa, anche al di là dell’inchiesta, di cui s’è pentito, qualcosa che non è riuscito a fare?
«Ex post è molto facile e probabilmente io stesso a mente serena avrei anche potuto fare valutazioni diverse su alcune singole vicende. Mi chiede un giudizio su di me come assessore, e ovviamente è un giudizio di parte. Ma solo chi non vuole vedere il lavoro di questi tre anni può dire che ci sia stato immobilismo, quando invece sono state assunte migliaia di persone, aperti reparti e ospedali, rinnovate tecnologie, avviate grandi opere attese da vent’anni e impedito, ad esempio, che si scrivessero pagine indegne come l’abbandono dell’ospedale San Marco. Le svelo un episodio che mi hanno ricordato proprio due giorni fa. Qualche mese prima dell’apertura dell’ospedale di Librino, i collaudatori dovettero verificare se i piloni antisismici fossero funzionanti. Arrivò la ditta che fece il collaudo, montando e smontando uno dei pali interni alle fondamenta. Un evento raccontato dai media, ma quando quasi tutti i giornalisti erano andati via ci fu un siparietto che è la sintesi dell’atteggiamento di noi siciliani di fronte a ogni possibile evento positivo. Il titolare della ditta si avvicinò a un cameraman e gli disse: “Tutto inutile è, tanto questo ospedale non aprirà mai…”. Forse riusciremo a superare la crisi sanitaria ed economica se il Coronavirus riuscirà a farci guarire da questo fatalismo per il quale ciò che accade in Sicilia non può mai essere un fatto positivo. È quasi una suggestione antropologica».
Da “ministro plenipotenziario della guerra” al Covid a normale cittadino. Com’è cambiata la sua vita dal giorno delle dimissioni?
«È cambiata profondamente. Ed è stata anche l’occasione per una riflessione, libera da qualsiasi condizionamento, sulle priorità che negli ultimi anni nella mia vita avevano preso il sopravvento. Ma è giusto anche comprendere perché ho deciso nell’immediatezza di dimettermi. Anzitutto perché, come tutti sanno era un momento della mia vita molto particolare nel quale avevo il dovere immediato di restituire condizioni di serenità alla mia famiglia. E poi perché, anche per ragioni legate alla mia professione, comprendevo che il rispetto delle istituzioni mi imponeva di consentire un primo approfondimento dell’indagine, potendo contribuire io stesso a chiarire alcuni aspetti che, nell’immediatezza, anche il clamore non avrebbe consentito di potere spiegare».
Lei è figlio di un ex alto ufficiale dei carabinieri. Ed è stato cresciuto, compresa l’esperienza di allievo alla Nunziatella, in un certo modo. Sente di aver deluso suo padre e la sua famiglia?
«Ho avuto accanto i miei familiari che i primi giorni non mi hanno lasciato da solo dalla mattina alla sera. Ma sarei bugiardo se non dicessi che la persona che ha sofferto più di tutti è stato mio padre. Ma non penso di averlo deluso. Chi lo ha conosciuto nel lavoro sa che probabilmente l’avrei deluso se avessi mancato di assumere decisioni, se avessi scaricato ad altri le responsabilità che invece mi sono assunto in un contesto unico rispetto a qualsiasi altro evento della storia recente. No, non l’ho deluso mio padre. Poi per fortuna è arrivato Federico…».
Ecco, infatti. Poco più di un mese fa è diventato per la prima volta padre. Come pensa di raccontare a Federico quello che magari suo figlio leggerà un giorno nei libri di storia? Dai bergamaschi positivi nell’hotel di Palermo ai vaccini di massa, magari fino alla fine dell’incubo. Con in mezzo le accuse di aver falsato la narrazione di quello che stava succedendo in Sicilia.
«Sì, è arrivato Federico. E quando siamo insieme vedo tre generazioni e spero solo di essere, con Elena, all’altezza di impartire a mio figlio la stessa educazione che ho ricevuto dai miei genitori. Federico, così come tutti i suoi coetanei, studierà il Coronavirus a scuola, come io ho studiato la Spagnola. Non so bene ancora quale sarà il giudizio della storia su questa pandemia, ma una cosa penso di averla imparata e nelle ultime settimane ci ho pensato molto: l’errore più grande che si può commettere oggi è guardare all’evento pandemico con la lente dell’ordinarietà. Significa avere dimenticato le scene immortalate dai media di tutto il mondo e pensare che la più grande crisi sanitaria all’epoca della globalizzazione che ha mandato in tilt i sistemi di cura di tutte le nazioni occidentali possa essere giudicata e commentata come l’influenza di stagione. Non è stato così»».
E poi c’è Musumeci. Che per lei è un padre politico. Nelle carte di Trapani emergeva la tesi che il governatore fosse quasi stato ingannato da lei e dal suo staff dell’assessorato. Com’è cambiato il rapporto fra voi due?
«Il presidente della Regione mi è stato vicino come si fa con una persona che conosci da ragazzino. Ho sofferto nel leggere una ricostruzione che ipotizzava il tradimento della sua fiducia. Ovviamente è stato facile confutare questa percezione, negli atti che abbiamo depositato. Ma assieme a Nello mi sono stati vicini tutti i parlamentari, tanti amici di DiventeràBellissima e non solo. E mi ha accudito, come un fratello più piccolo, Enrico Trantino. La prima volta che sono tornato in studio sono passato a salutare Enzo Trantino. Il suo abbraccio mi ha dato la forza di riprendere la mia scrivania e rimettere i libri sul tavolo».
Dopo le dimissioni ha ripreso a fare l’avvocato penalista, allora?
«Non ho mai smesso. Le racconto un aneddoto. Alcune settimane prima della mia nomina ad assessore, dopo un lunghissimo lavoro, il mio studio ha ottenuto un provvedimento definitivo con la condanna della Regione Siciliana. Con Giacomo Gargano (avvocato, capo della segreteria tecnica di Musumeci, ndr), che per lo studio era il titolare del procedimento, avevamo fantasticato su quella super parcella che nasceva da un patto di quota lite con il nostro cliente. È bastato uno sguardo per intenderci sulla assoluta inopportunità di iniziare un mandato istituzionale notificando un precetto alla Regione. Abbiamo rinunciato al cliente e alla parcella. Con lo stesso spirito non ho mai abbandonato la mia attività professionale, ma ho deciso di evitare di patrocinare personalmente molti processi perché ritenevo, con l’aiuto dei colleghi, che è difficile essere a capo di un assessorato che rappresenta metà del bilancio della Regione e non dedicarcisi con l’adeguata terzietà. Non ho però commesso l’errore che fanno in tanti: puntare alla politica come mezzo di sostentamento. E quando ho potuto non ho mai smesso di studiare e di tenermi aggiornato. Gli incarichi istituzionali, oggi più di prima, devono essere considerati una missione e una parentesi di vita. Altrimenti si smette di essere uomini liberi».
Non ha smesso di fare l’avvocato, ma nemmeno di fare politica. Musumeci va verso la ricandidatura, ha bisogno di averla a fianco…
«Due mesi fa mi sono dimesso da assessore per le ragioni che ho detto prima. Ma non mi sono mai dimesso dalla politica, che è una passione di vita e un atto di servizio verso la società. Tra i miei errori del passato c’è stato quello di aver dato la percezione, accanto al ruolo istituzionale, di entrare a gamba tesa nelle vicende della politica e nei rapporti fra le forze della nostra coalizione. Se ho dato questa percezione, difficilmente accadrà nel futuro. Ma ho il dovere di lavorare con il nostro movimento per garantire la continuità di un percorso di governo che ha prodotto atti significativi e che deve poter proseguire la propria azione, nella piena condivisione fra tutti gli alleati e aprendo le istituzioni regionali alla società. Fra un anno e mezzo non ci sono elezioni regionali, nazionali o amministrative. Fra un anno e mezzo c’è da dover scrivere e realizzare l’uscita della Sicilia dalla sua marginalità con gli strumenti inediti che verranno dispiegati per superare la crisi economica imposta dal Coronavirus. È un’occasione unica, che chiama la politica a essere responsabile e a superare i personalismi e le piccole e grandi inimicizie. Non è più il tempo».
Nelle ultime settimane, a parte i rumors gracchiati sulle frequenze di “Radio Regione”, anche sui social c’è chi le chiede di riprendersi il suo posto, suscitando l’indignato dissenso delle opposizioni all’Ars. Tornerà a fare assessore regionale alla Salute?
«Approfitto intanto per dire grazie a chi mi è stato vicino e quanti hanno espresso in questi giorni la loro opinione. Alcuni mi hanno sorpreso perché si tratta di organizzazioni o personalità che non appartengono ai miei riferimenti politici né alle persone con cui ho lavorato. Ringrazio anche chi ha fatto conoscere le ragioni della propria contrarietà perché ha riproposto valutazioni politiche che aveva già espresso nel passato, fondando le proprie opinioni su fatti dei quali non è importante l’inconsistenza perché l’opposizione a un governo ha il diritto, e qualche volta il dovere, di essere contraria. Mi ha stupito invece, ma forse è legato all’incombere del posizionamento individuale verso una campagna elettorale meno vicina di quanto appaia, che qualcuno abbia repentinamente cambiato la propria opinione. O forse è stata una mia impressione. Ma anche questo appartiene alla politica».
Non ha risposto alla domanda: torna a fare l’assessore alla Sanità?
«Quando fondammo il movimento giovanile di Alleanza siciliana scegliemmo Piazza Armerina per la nostra prima festa che aveva per slogan una frase di Nietzsche: “Il futuro influenza il presente tanto quanto il passato”».
Continua a non rispondere…
«E lei fa il suo mestiere nel richiederlo, ma su questo mi consenta di mantenere il mio riserbo».