Peppe Provenzano, lei ha espresso un giudizio durissimo sulla manovra del governo Meloni. Ma, oltre all'iniquità sociale, non c’è anche il fondato timore che aumenti il divario fra Nord e Sud?
«Certo, le cose sono legate. Con una manovra che non fa nulla per lo sviluppo, che favorisce evasione e precarietà, che prende i soldi dai poveri e taglia sulla spesa sociale, a partire dal Reddito di Cittadinanza e dalla sanità, a farne le spese saranno soprattutto il Sud e la Sicilia. Nella manovra non c’è alcuna misura specifica per il Sud, ricordo che nelle due leggi di Bilancio quando fui al governo dedicavamo un intero capitolo al Mezzogiorno, qui non compare nemmeno la parola. Non era mai successo. È a rischio la fiscalità di vantaggio per il lavoro al Sud, e non rinnovano nemmeno il credito di imposta per investimenti. Ho definito questa manovra una redistribuzione alla rovescia, e questo riguarda anche i rapporti tra Sud e Nord».
Sul tavolo del governo, al di là della finanziaria, c'è anche l'autonomia differenziata: uno "scalpo" che Calderoli vuole consegnare ai leghisti del Nord. Qual è il rischio concreto per le Regioni del Mezzogiorno?
«La bozza Calderoli è un ritorno alla “secessione dei ricchi”, semplicemente irricevibile. Torna, in maniera camuffata, l’idea dei “residui fiscali”: e cioè l’unica cosa che davvero interessava a leghisti, trattenere il gettito fiscale sul proprio territorio. Il rischio però non è solo quello di spaccare l’Italia, ma di far saltare l’intero Paese».
Da ministro del Sud lei è stato sempre un acerrimo nemico del regionalismo differenziato. Ci sono delle contromisure per attutire l'impatto sulla coesione nazionale, quest’ultimo un principio appena richiamato da Mattarella?
«Guardi, le parole del presidente della Repubblica sono inequivocabili. E sono un monito per tutti. Prima di discutere di qualsiasi forma di autonomia, e direi a prescindere, la Repubblica italiana già oggi ha il dovere di colmare i divari di cittadinanza al Sud e nelle aree interne. Dobbiamo definire i Livelli essenziali di prestazioni su tutti i servizi, e non con un criterio ragionieristico: partendo dai fabbisogni standard. E far rispettare le clausole per cui mi sono battuto, quella sugli investimenti ordinari e quella sul Pnrr. Non è solo un fatto di equità, ma serve a liberare il potenziale di sviluppo».
Dal Pd, a eccezione dei governatori di Campania e Puglia e di pochi altri esponenti, non si sono levate urla di dissenso. Magari, sostiene qualcuno nel centrodestra, ciò è spiegabile col “peccato originale” della firma dell’allora premier Gentiloni nell'accordo con Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna…
«Per la verità, abbiamo fatto tutti muro, anche perché Calderoli l’ha fatta talmente grossa che ci ha compattato. Critiche sono espresse anche da Presidenti di Regione meridionali di destra. Io ritengo che dopo la pandemia, il Pnrr e la crisi energetica, che ci insegnano quanto sia necessario un più forte coordinamento centrale, parlare oggi di ulteriori poteri alle Regioni sia del tutto anacronistico, e semmai dovremmo porci il problema degli enti locali. In ogni caso, io dico chiaramente, e dissi già allora, che le preintese firmate da Gentiloni sono state un errore. Ora vorrei vedere uomini come Schifani o come Musumeci schierarsi a difesa della loro terra, di fronte all’attacco di questo governo».
Musumeci è stato ministro “virtuale” del Sud per una ventina di giorni, fino al concreto passaggio delle competenze a Fitto. Quale sarà la linea del governo Meloni sul Mezzogiorno?
«La Sicilia è stata umiliata nella formazione del governo. La vicenda di Musumeci è stata una specie di barzelletta, per un momento è sembrato un ministro onorario, senza deleghe. Sono sincero, da siciliano mi spiace. E poi penso che smantellare il ministero del Sud e della coesione sia stato un errore. Per quanto Fitto possa lavorarci, su di lui gravano troppi dossier. La scelta conferma che il Mezzogiorno, per questo Governo, non è una priorità. Aggiungo che l’innalzamento del tetto del contante è un favore non solo agli evasori, ma anche al riciclaggio, alla corruzione e alle mafie. Ma questo rischio riguarda tutto il Paese».
Sulla scia della melina del governo Draghi, finora anche quello di Meloni non ha ancora ripartito il Fondo sviluppo e coesione, in cui ci sono 20 miliardi per il Mezzogiorno. E in più c'è lo spettro dell'annunciata rimodulazione del Pnnr. Altre penalizzazioni in vista per il Sud e la Sicilia?
Questo mi fa rabbia, per due ragioni. La prima è che mi ero battuto nella Legge di Bilancio per il 21 per incrementare il Fondo sviluppo e coesione di 20 miliardi. La seconda è perché non c’è nessuna ragione, nessuna, che giustifica il ritardo nell’assegnazione di risorse che sono già ripartite. Più in generale, vedo un rischio sul Pnrr di cui nessuno parla. La riorganizzazione dei Ministeri, dettata da esigenze meramente identitarie, produrrà un considerevole ritardo. E nel ritardo a farne le spese sarà il Sud».
In Sicilia, con molta lentezza, è salpato il governo Schifani, con lo scafo già bucherellato dalle faide nel centrodestra. Pensa che durerà a lungo?
«Mi aspettavo scelta di qualità, con personalità all’altezza dei drammi che vive la Sicilia. Niente di tutto questo. E non ho sentito nulla sulle riforme di cui ha bisogno la Sicilia, a partire dai rifiuti. Sono preoccupato per la gestione della sanità, anche perché la pandemia c’è ancora. E ancora di più per l’impreparazione e i ritardi accumulati sulle opere del Pnrr, che rappresenta l’occasione che la Sicilia non può sprecare. Su quanto dureranno, non mi faccio illusioni. La spaccatura in Forza Italia fa certamente impressione, ma le contraddizioni c’erano anche prima ma questa destra dimostra di sapersi unire sempre nella gestione del potere. E chi da Messina si presentava come alternativo a tutto e a tutti ora s’acconcia a fare da stampella a Schifani. Francamente, non un bello spettacolo.
Che tipo di opposizione auspica dal Pd siciliano?
«Un’opposizione forte e intelligente, che leghi la dimensione nazionale a quella regionale. A partire dalle emergenze siciliane, io vedo due priorità: accelerare gli investimenti del Pnrr sulle infrastrutture sociali e ambientali e creare lavoro buono, per i giovani e le donne. La compattezza del gruppo regionale è un punto di forza. E c’è un protagonismo dei nostri deputati nazionali. Barbagallo è capogruppo in commissione Trasporti, un’emergenza su cui non daremo tregua. Nicita è impegnato sulla crisi industriale a Siracusa, Iacono e Marino sono in commissioni strategiche per la Sicilia. Ma ora abbiamo tutti un dovere, costruire anche in Sicilia un nuovo Pd».
Quale? E, soprattutto, come?
«Dobbiamo animare il processo costituente nel Pd siciliano, con una responsabilità in più di aprire la nostra comunità e fare una discussione che definisca la nostra identità. Anche in Sicilia, dopo la chiusura del congresso nazionale dobbiamo aprire una fase congressuale regionale, che non sia una resa dei conti rivolta al passato. Perché prima di parlare di nomi, di assetti, dobbiamo darci un profilo che parli alla società siciliana. Abbiamo recuperato rispetto al 2018, ma la sconfitta pesa. Non basta fare opposizione, dobbiamo metterci subito al lavoro per costruire un’alternativa. E io credo che il Pd siciliano debba caratterizzarsi per porre la priorità del Sud, nel partito e nel Paese. Il 3 dicembre a Palermo parteciperò a un’iniziativa organizzata da alcuni amministratori proprio su questo. Solo se saremo interpreti di un nuovo meridionalismo, che si fondi sul lavoro buono e la cura del territorio, torneremo ad essere attrattivi, anche perché di fronte a noi abbiamo una destra che lascia la Sicilia nel pantano e da Roma attacca l’equità sociale e territoriale».
Twitter: @MarioBarresi