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Enzo Trantino: "Ricomincio da me stesso

Enzo Trantino: “Ricomincio da me stesso La politica? mercanzia

Di Mario Barresi |

Seduto sul divano della sua casa di San Gregorio, nel corso di un lungo colloquio pomeridiano, non pronuncia mai una parola: Gemma. Eppure lei – l’altra metà di un idillio osmotico, la mancanza che toglie l’aria – è dappertutto. In tutti i pronomi e le perifrasi per non pronunciare il suo nome, in ogni millimetro del salotto stracolmo di libri e faldoni; in qualsiasi respiro e sospiro del nostro interlocutore; in tutto ciò che ci dice e in ciò che non ci dice. Enzo Trantino ricomincia da sé. Senza Gemma Albo, l’adorata moglie che non c’è più. Ma è sempre sottintesa. Il leone ferito esce dalla gabbia del dolore e scaccia i «fantasmi della depressione e della nevrosi, perché ho un sistema nervoso forte e non voglio né l’una e né l’altra». E riparte da ciò che sa fare meglio: il principe del foro. Trantino sarà al tribunale di Ragusa, oggi, per difendere le ragioni della famiglia Brafa. Quella di Giuseppe, il bambino di Modica sbranato da un branco di cani randagi a Sampieri. Torna a indossare la toga soprattutto «perché l’avevo promesso a lei»; è più agguerrito che mai contro la «strafottenza istituzionale» che fu alla base di quella morte atroce. Il simbolo di una Sicilia (quasi) senza speranza.

 Avvocato, le ferie sono finite. E si comincia da un processo di quelli tosti.

«È un processo che vede sette persone imputate, fra cui il custode, il sindaco di Scicli, più dipendenti comunali e veterinari. Un processo che coinvolge due versanti. Il primo è un istituto, se non tipico, particolarmente ripetuto in Sicilia: la strafottenza. E la strafottenza istituzionale è imperdonabile, perché non appartiene ai tuoi diritti disponibili, ammesso che sia un diritto. L’altro è l’orrore. Che man mano scema e diventa ricordo. E il ricordo non è mai un ammonimento perché ciò non si ripeta».

Fu una morte annunciata?

«Il controllo dei cani costava al Comune la “insostenibile” cifra annua di 10mila euro. Questo fu il presagio. Una morte annunciata, a tutti gli effetti».

Quale sarà la sua strategia di parte civile?

«Il collegio di parte civile è composto da me e da mio figlio Enrico, cotitolare del nostro studio, e dai colleghi Ivan Albo, Salvatore Maltese e Daniela Spadaro. Andiamo senza mozione degli affetti all’attacco, perché il processo ce lo consente, per una responsabilità inestinguibile. Dove non bastano i risarcimenti e tutto il resto. Noi lo consideriamo una tragedia individuale, con permanenti riflessi sociali. Perché ognuno sappia che il proprio figlio possa essere ancora coinvolto, perché non è stata estinta la causa di tutta la tragedia».

Ma questa, per l’uomo Trantino, non sarà un’udienza come le altre.

«Io lo promisi a mia moglie (simula un colpo di tosse per mascherare il singulto, ndr) . Questa lunga vicenda dell’addio alla vita è durata cinque mesi, con un mese di isolamento dalla vita stessa, il resto a colloquiare. Noi avevamo un colloquio fitto, intenso. Per tutto. C’era questa avidità di conoscenza dei fatti. Eravamo due inappagati: non ci fermavamo mai nel sapere sempre di più. Lei mi fece promettere che io non mi sarei allontanato da tre cose. La prima sono gli affetti per i bambini: devo continuare come se ci fosse lei. Le posso raccontare una cosa?».

Certo.

«Pensi che il nostro nipotino di 13 anni, in quel salone con la bara della nonna, vide le cartelle con la donazione per i sofferenti in memoria di chi non c’era più. Lui ha preso la sua paghetta, 30 euro, e ha scritto la cartella alla nonna (qui il colpo di tosse non basta, ndr) . Mia moglie assisteva i malati terminali quando io ancora facevo politica e si presentava col suo cognome da signorina: Albo. Io le chiedevo: “Ma questo cognome ti ingombra? ”. E lei mi rispondeva: “No, ne ho troppo rispetto per farlo strumentalizzare da qualcuno”. Questa è la mia famiglia, gli stessi sono i miei figli Enrico e Novella e i miei nipotini».

E le altre due promesse che fece a sua moglie?

«La seconda fu non lasciare la scrittura, la rubrica che ho su “La Sicilia” da otto anni. E poi mi fece promettere di non lasciare la professione. “Fallo solo se non sei nelle condizioni fisiche di accudirti, ma fino a quando hai la testa che hai devi continuare”, mi disse. E questo è il primo processo. Ho centuplicato gli sforzi: sto rispettando un impegno che avrei mantenuto lo stesso, ma diventa una cosa diversa».

Cosa diventa?

«Sullo sfondo c’è qualcuno che mi dice: va bene, così è, così dev’essere. Perché se non riprendi è nevrosi. O è depressione (la voce gli trema, ndr) . E io ho un forte sistema nervoso: non voglio né l’una e né l’altra. Ho ripreso gli appuntamenti allo studio, mi sono portato a casa le carte dei processi più significativi che mi hanno accompagnato in questi giorni. Sono stati compagni discreti e fondamentali. Perché il lavoro è salvavita».

Anche la politica potrebbe esserlo. Potrebbe essere il padre nobile di una destra in frantumi…

«Per me ogni parola è testimonianza di verità. Non devi piacere a nessuno, devi piacere soltanto alle cose che dici. Io potrei nascondermi, dicendo che sono cercato per consigli da padre nobile. Ma la verità è che se ne sono fottuti. Mi è finita come Cincinnato, che s’è ritirato in campagna e se lo sono scordati. Né io aspettavo qualcuno, eh… ».

Ne soffre, vero?

«No, non che mi disturbi questo. Io sono uscito dalla politica nel 2006, fui alla Camera ininterrottamente dal 1972. Ebbene, ho scoperto che oggi la politica è un divertente condominio. Non che io abbia vissuto la Repubblica di Platone, ma era diverso. C’erano anche rapporti umani. Oggi sei in vendita: passi da destra a sinistra, cambi casacca tranquillamente. Con una follia che neanche nelle giostre si vede. Io assisto atterrito, perché ho vissuto l’epoca in cui la coerenza era il prerequisito di tutto. Oggi tutto diventa mercanzia, senza sentimenti né ideali, non c’è più nulla».

Ma quanto hanno influito, nell’addio alla politica, gli schizzi di fango sulla commissione d’inchiesta su Telekom Serbia?

«Su Telekom Serbia ho una specie di volume di giudizi di gente di sinistra qualificata, tutti a riconoscere competenza e integrità. Di fatto, non si è mai potuto parlare, sfiorandomi, di una cosa che non fosse la corretta gestione del patrimonio di conoscenze del presidente di un organismo che deve accertare fatti».

Ma allora ascoltare il faccendiere Igor Marini non fu un depistaggio?

«Quando arriva il signor Marini, che poi si dimostra essere un soggetto squalificato, questo a me non interessa. Perché io lo so dopo. Intanto lo devo interrogare, accertare ciò che dice. Perché anche un soggetto squalificato ti può dire cose importanti. Alla fine scegli se utilizzarle o no. La commissione alla fine ha citato 87 testimoni nessuno dei quali aveva che fare con Marini, che non è stato utilizzato. Abbiamo presentato 628 pagine di relazione intermedia dove c’erano ambasciatori, professionisti illustri, uomini delle istituzioni e della cultura. Tutti a testimoniare che quello fu lo sconquasso del pubblico denaro. Con Telekom Serbia io ho concluso con gli onori delle armi».

E a quel punto lei chiuse con la politica…

«A quel punto interviene un gentiluomo (ridacchia, ndr) della politica, che oggi non c’è più nella politica. Si chiama Gianfranco Fini. Non c’è più nel senso che non c’è traccia di quello che conoscevo io: quello venuto dopo è un sosia, un replicante. Venne a Catania, fece un comizio al cinema Golden, con la gente fuori che ascoltava dagli altoparlanti. Disse che Trantino è un patrimonio della Repubblica e che per le sue qualità e conoscenze doveva andare al posto giusto: la Corte Costituzionale».

Un do ut des: esci dalla politica, vai alla Consulta…

«Io avevo già detto che non mi sarei ricandidato alla Camera, questa non era la contropartita. A due giorni dalla votazione leggo su un giornale che c’era un candidato, persona rispettabilissima che non conosco, scelto da Fini perché lo preferiva a un uomo scomodo come me. E dire che lui mi considerava il suo consigliere privilegiato: mi viene da ridere quando ci penso».

Fini l’ha tradita?

«Fini ha tradito me, così come ha tradito la destra. Lui mi aveva detto per cinque volte di fare il ministro: tutte disattese. Lo chiamai e gli dissi: il sesto assegno a vuoto io non te lo consento di presentarlo, questo è un taglio netto. Tu non esisti più per me, spero che ciò avvenga anche per te».

Quanto pesano le scelte di Fini sull’attuale vuoto cosmico della destra?

«Furono decisive. Lui era fisiologicamente destinato a governare questo Paese. Berlusconi andava a chiudere, coltivando il sogno del Quirinale e Fini era l’erede naturale. E lo sarebbe diventato, se non fosse stato indemoniato dentro, vittima della foia del potere. Quando dicono che è un cinico sbagliano: è un narcisista».

Ed è finita com’è finita…

«Questo è uno dei pochi casi in cui giustizia è stata fatta, perché è sparito del tutto dopo una carriera politica rapida e prestigiosa. Sparito non perché l’hanno dimenticato, ma perché c’è il rigetto di questa immagine. Questa sua, usiamo un termine giuridico, indegnità a succedere è stata decisiva. Ed è cambiata l’Italia, non è soltanto andata in crisi la destra».

Oggi cosa resta?

«Nulla. L’eredità è stata destinata a rispettabili persone, ma che non hanno la vis attrattiva di diventare il capo del popolo della destra. Ci sono figurine Panini, utili alla collezione. Ma niente di più. Renzi resiste perché non ha avversari. Si trova nelle condizioni che si trova davanti un corteo di persone tali che, pur essendo un venditore di tappeti, non lo scalfiscono».

Nemmeno Salvini, che piace a tanti suoi vecchi amici?

«Lui è uno che ha una forza aggressiva di comunicazione impressionante. Questo c’è. Ma è un Renzi di destra. Qui non vincono i migliori slogan, andiamo a vedere cosa c’è dopo. Quando rientrarono i partigiani a Milano c’era Togliatti ministro della Giustizia. Pajetta, che era capo dei partigiani, telefonò al Guardasigilli e gli disse: “Compagno Togliatti, abbiamo occupato la Prefettura”. E Togliatti gli rispose: “E ora? ”. Questo è il problema: e ora? ».

E gli altri eredi del popolo di destra? Storace, la Meloni?

«Sono generosi contribuenti alla speranza di questo popolo. Ma da soli possano risolvere la situazione di un popolo che vuole uscire dal cloroformio».

Per chi voterà, la prossima volta?

«Se fosse oggi, avrei serissime difficoltà. Alla fine prevarrebbe forse il lontano voto ideologico, nel senso di qualche persona che mi ispirerebbe».

E cioè? Chi?

«L’unico che salvo, nel panorama attuale, è Nello Musumeci. Lo voterei anche perché l’ho visto all’opera: è uscito con le mani pulite avendole in pasta. Ma sarebbe un voto sentimentale. Non programmatico, perché non so cosa significhi più programma».

Non le piace il suo “Diventerà bellissima”?

«Si è spogliato dell’identità di destra, crea un certo appeal. Anche perché io conoscevo Paolo Borsellino e lui diceva spesso: “Beati quelli che arrivano con i capelli bianchi e hanno le stesse idee di quando avevano i capelli neri”».

Come avrebbe fatto, il Trantino politico, l’opposizione a Crocetta?

«Io non sono uno sciasciano. Ma ero uno dei pochi che lui frequentava quand’era parlamentare. Lui parlava pochissimo, si sedeva nei divani del Transatlantico di Montecitorio. E cominciava a fumare, accendendo la sigaretta successiva con quella che spegneva. Una volta gli chiesi: “Leonardo, come definiresti la Sicilia con un solo aggettivo? ”. Lui mi rispose: “Irredimibile”. Se la Sicilia è irredimibile, come mi può chiedere cosa avrei fatto con Crocetta? Solo il commissariamento di un giapponese o di un tedesco potrebbe salvarci. Nel deserto della Sicilia, Crocetta, pur non conoscendo il deserto, è convinto di essere il condottiero: è condottiero del nulla, per questa sua situazione che diventa parapatologica. Lui ha un grande concetto di sé: si esalta, beato lui, si congratula con se stesso alla fine della giornata».

Ma anche il centrodestra siciliano ha le sue colpe.

 «Musumeci è stato sacrificato dai suoi stessi alleati, gli spararono alle spalle. Perché il fuoco amico è l’ultima arma che viene a essere usata nel momento in cui non ti possono abbattere frontalmente. Crocetta ce lo meritiamo. Perché abbiamo fatto di tutto per averlo».

E com’è la Catania di Bianco?

«Sono rimasto sconvolto dal bel servizio che ha fatto Carmen Greco sul vostro giornale. La giornalista attraversa tutta la città in controsenso, senza casco, passa davanti a tutte le forze dell’ordine e nessuno la ferma. Una nitida fotografia di Catania: non la lotta di bande nel Far West, ma l’indifferenza».

Come comincia, con i nipotini su questo divano, la favola di nonno Enzo?

«C’era una volta la speranza… Vostro nonno (voce impastata dall’emozione, ndr) l’ha servita e assieme a vostra nonna pensava non di cambiare il mondo, ma di trasmettervi dei valori. Eccoveli, adesso sono vostri: correttezza, onestà, parola data… Ma fuori da questa stanza sappiate che avrete grandi difficoltà a presentarli all’incasso, perché sono valori in disuso. Non è malinconia, ma una rappresentazione amara e crudele della realtà».

Cosa direbbe loro se un giorno volessero lasciare la Sicilia?

«Dirò loro di resistere. Il destino dell’uomo è la verticalità. Non si può vivere sempre orizzontali e subire la noia, le devianze, l’indolenza. C’è un momento in cui bisogna riscattarsi. Perché convinto dalla cultura che la Repubblica dell’Oro nasce dopo il Basso Impero. Noi siamo in pieno Basso Impero. E io aspetto la Repubblica dell’Oro».

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