«Così pagavamo tangenti ai politici»
”Così pagavamo tangenti ai politici” Le confessioni raccolte dal pm
Il racconto del magistrato Sebastiano Ardita è già un caso
Arriva in libreria il volume del magistrato Sebastiano Ardita “Catania bene. Storia di un modello mafioso che è diventato dominante” (Mondadori, collezione saggi, 2015). Ardita (Catania 1966) ha iniziato la sua carriera in magistratura come sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Catania, divenendo poi componente della Direzione distrettuale antimafia. Oggi è procuratore della Repubblica aggiunto a Messina. Ecco, col permesso dell’autore, alcuni brani del volume “Catania bene”.
di Sebastiano Ardita
L’estate del 1993 la passammo più in carcere a interrogare che a casa nostra. Rinunciammo a buona parte delle ferie, perché ci chiamavano quasi ogni giorno. Ripensando a quegli anni, a quei momenti e poi a ciò che è accaduto dopo mi sovviene una riflessione. Non posso negare che quella vecchia classe politica, abituata ai compromessi e piena di difetti e di contraddizioni, fosse pur sempre molto rispettosa delle istituzioni, e certamente non arrogante.
Non riesco a togliermi dalla mente l’interrogatorio in stato di arresto avvenuto nel carcere di Bicocca nella primavera del 1993 dell’onorevole Nino Drago. Quando nella fase preliminare ci accingevamo a preparare il verbale gli domandammo le generalità: «Onorevole, dove è nato? ». Lui ci rispose: «Non chiamatemi onorevole, non voglio più sentirlo questo titolo, non mi appartiene più». E allora noi lo chiamammo col titolo professionale: «Ingegnere, ci dica quando e dove e nato». E lui: «Non appellatemi con titoli, chiamatemi signor Drago».
Al di là di tutto, del bene e del male, quel modo di fare esprimeva la prevalenza dell’uomo sulla funzione. Era un leader che si era fatto da sé, e tale rimaneva pure in quella condizione. Un atteggiamento dignitoso riscontravo anche nei figli che a volte lo accompagnavano al processo. Non saprei dire se quello stile garbato fosse una conseguenza del sistema politico di elezione con metodo proporzionale, che li aveva abituati alla precarietà delle maggioranze ballerine, e dunque uno strumento per mantenere costante il consenso; o se invece – sia pur con le loro deviazioni – i politici di una volta avessero davvero un’accentuata cultura istituzionale. Non ricordo però proposte di amnistia o modifiche legislative che potessero far gioco alla difesa nei processi. E certamente non apparteneva loro l’arroganza di chi si difende dal processo e invoca sollevazioni contro i giudici. Dunque chi li ha conosciuti, quei politici, non può che considerarli – pur con tutti i loro difetti e la loro spregiudicatezza – comunque dotati di un loro carisma. (…)
A questo proposito la vicenda più significativa che mi torna in mente è quella di cui fu protagonista Rino Nicolosi. Ho ancora davanti agli occhi il suo sguardo intenso e severo, che incrociavo spesso durante la celebrazione delle udienze nei processi che lo vedevano coinvolto. Insieme agli altri colleghi del gruppo di lavoro ero stato pubblico ministero in tutte e tre le maxi inchieste che avevano tracciato il volto di Tangentopoli a Catania: gli appalti sulla costruzione del centro fieristico di viale Africa, sul consorzio agroalimentare e sulla Usl 35. Ciò mi aveva consentito di apprendere quali fossero stati gli errori del politico, ma anche quale fosse lo spessore della personalità e la sensibilità dell’uomo. Nicolosi aveva avuto una ascesa politica inarrestabile.
Democristiano da sempre, con un passato di sindacalista nella Cisl, era stato eletto la prima volta deputato all’Assemblea Regionale Siciliana nel 1976. Rieletto nel 1981, era stato prima assessore all’Industria e poi ai Lavori pubblici. Nel 1985 era divenuto presidente della Regione Siciliana mantenendo la carica fino al 1991 e guidando cinque governi della Regione. Nel 1991, appena rieletto all’Ars, si era dimesso per partecipare alle elezioni politiche dell’aprile 1992 ove conseguì ben 110.000 preferenze, che erano un record mai raggiunto prima di allora nel collegio Sicilia orientale. Divenne subito vicecapogruppo del suo partito alla Camera dei deputati e la sua carriera lo avrebbe proiettato ai vertici delL’ lo Stato se, prima le vicende giudiziarie e poi la malattia, non l’avessero bruscamente arrestata.
(…) Sostenere l’accusa nei suoi confronti non era semplice perché, anche se ritieni di disporre delle prove, nella ricostruzione dei fatti non puoi permetterti errori quando hai dinanzi un interlocutore così attento. Quando era vigente la vecchia legge, nei processi che avevano a oggetto il pagamento di tangenti, provato il versamento del denaro, occorreva dimostrare che il percettore pubblico ufficiale avesse fatto qualcosa in cambio: solo così si poteva ottenere una condanna per corruzione. In caso contrario era possibile tutt’al più ottenere la condanna per violazione alla legge sul finanziamento ai partiti. Nicolosi, che seguì finché poté tutte le udienze dei processi che lo riguardavano, non si schermiva dietro inutili paraventi e non negava la realtà del denaro che affluiva nei conti dei partiti.
Egli sosteneva però che il finanziamento illegale alla politica era un fenomeno radicato nel sistema, ma sganciato dall’erogazione immediata di benefici agli imprenditori. Noi della pubblica accusa sostenevamo il contrario, ritenendo che si trattasse di corruzione. Le ragioni della divergenza di opinioni erano la sostanza giuridica dei processi che si celebravano, ma a volte le discussioni appassionate con gli avvocati difensori proseguivano anche dopo la fine dell’udienza e si prolungavano per un po’. Nicolosi era molto rispettoso del ruolo dei giudici, e anche di quello dei pubblici ministeri, che vedeva come contraddittori ostinati, ma animati da sane intenzioni. Dal semplice garbato saluto in aula all’inizio e alla fine di ogni processo, eravamo passati a brevissimi scambi di parole su argomenti piuttosto banali.
Avevo la sensazione netta che quell’uomo non volesse rinunciare in nessun caso alla tentazione di stabilire un contatto umano, nemmeno con chi – sia pure per dovere di ufficio – aveva contribuito a stravolgere la sua carriera politica e forse anche la sua stessa esistenza. A differenza d’altri era sempre pacato nell’esposizione delle sue ragioni. Ed era impegnato ad ascoltare gli argomenti del proprio interlocutore guardandolo sempre dritto negli occhi, con altrettanta attenzione rispetto a quella che impiegava per argomentare i suoi discorsi. La sua difesa molto spesso non consisteva nel negare i fatti, ma nel guardarli con lenti diverse da quelle utilizzate dall’accusa. Non era abituato a screditare chi lo chiamava in causa, ma si difendeva tentando di spiegare quale fosse stato il suo ruolo nella politica siciliana. Un giorno, al termine di un’udienza del processo sulla Usl 35, mi attardai in attesa di un commesso che mi aiutasse a trasportare i due faldoni che stavano sul banco del pubblico ministero. Con la coda dell’occhio vidi Nicolosi fare capolino nell’aula dopo aver salutato i suoi legali nell’atto di fare rientro a casa. Quando anch’io decisi di uscire dall’aula – essendo stanco di attendere, con il peso degli incartamenti da reggere, il commesso che non arrivava – me lo vidi sbucare di lato.
Mi camminò accanto per un po’, come se nulla fosse, accompagnandomi nel tragitto che conduceva al mio ufficio. Lungo la strada mi espresse apertamente la volontà di «affrontare un ragionamento » proprio su quella realtà, della quale era stato protagonista. Lo fece in modo diretto e senza preamboli, come era solito fare lui: «Dottore, io ho stima di lei. Vorrei che mi ascoltasse, spogliandosi per un attimo della toga da pubblico ministero. Mi creda, non è tutto così mostruoso come sembra. Questo sistema deviato del finanziamento alla politica lo abbiamo trovato, non ce lo siamo inventato noi! Anzi, se lei sapesse quanti sforzi ho fatto personalmente per correggerlo, per uscirne fuori, per liberare la politica dal malaffare…! ». Gli spiegai che nessun ragionamento io avrei potuto affrontare con lui al di fuori della dialettica del processo, e del ruolo che rivestivo. Che ogni fatto da me appreso nell’esercizio delle mie funzioni doveva essere riversato in un atto processuale. Che anc’io nutrivo considerazione per la sua intelligenza e rispetto per la sua umanità, ma non avremmo mai potuto discutere come due amici al bar, almeno sin tanto che io fossi stato sostituto procuratore a Catania.
Prese avvio così, da quella iniziativa, il suo tentativo di dare un contributo ufficiale, «dal di dentro», per chiarire i misteri della politica siciliana. «Perché non prova a mettere a verbale ciò che ha da dirmi? In fondo, se è la verità, questo non può che giovarle. O forse preferisce che siano sempre prima gli altri a chiamarla in causa? » Mi accorsi che era tentato dal desiderio di avviare quel dialogo, ma compresi subito che le sue resistenze erano legate a un unico, per lui insuperabile, problema: «Io, così, dovrei accusare anche altri. Dovrei chiamare in causa anche miei amici, persone che hanno creduto in me… No, io non sono un delatore, non me la sento…! ». Passò poco tempo, e al rientro dalle ferie del ’97 l’onorevole mi fece contattare dal suo avvocato: aveva revocato il collegio dei suoi difensori e nominato un giovane determinato a sostenerlo in quella sua scelta.
Si era deciso così ad «affrontare quel ragionamento» davanti a un verbale. Io informai il capo del mio ufficio di questa intenzione, divenuta ormai definitiva, e insieme agli altri colleghi che formavano il piccolo gruppo di lavoro fui delegato per sentirlo a verbale. Eravamo nel settembre 1997 e cominciarono le nostre lunghe sedute presso la caserma dei carabinieri. Non si trattava di interrogatori semplici. Noi chiedevamo nomi, fatti ed episodi. Lui ci rispondeva con ampi ragionamenti sulla società e la politica, faceva lunghe premesse sulle ragioni del finanziamento dei partiti, e quando lo incalzavamo con qualche domanda specifica, prima di rispondere, ripeteva sempre la stessa frase: «Io non sono un delatore… ho bisogno di ragionare, di spiegare… ». Sarebbe stato facile spazientirsi in quella situazione, un po’ per il tempo che trascorreva senza che si ottenessero grandi risultati, un po’ per le aspettative che si stavano formando sulla sua collaborazione e che andavano ben oltre quel che avevamo raccolto dentro il fascicolo, ma nessuno di noi magistrati inquirenti perse mai la calma o l’interesse nell’ascoltarlo.
(…) E così pian piano, con i suoi tempi e seguendo il proprio percorso logico, andò più sul concreto. Fino a che arrivammo alla svolta: ci raccontò come funzionava il sistema degli appalti descrivendo quei meccanismi segreti dell’amministrazione della cosa pubblica, ignorati dai più, che rappresentavano un vero e proprio «sistema» di composizione degli interessi. Ma non rinunciava mai a dare una spiegazione «politica» di quel che raccontava. Voleva che noi gli credessimo quando ci diceva che aveva fatto tutto per passione. Aveva investito in un sistema che lui stesso adesso definiva corrotto, «perché alcuni politici si appropriavano di quelle risorse che erano destinate alla politica, ma molti altri no…! ». Ci disse che l’unico modo per uscirne era rendere diverso il finanziamento ai partiti, perché da quel finanziamento dipendeva la capacità di ottenere consenso e i politici non avrebbero mai rinunciato ai soldi, se servivano per avere potere.
«Occorreva cambiare quel sistema, ma l’unico modo era cambiarlo dal di dentro» ripeteva. Ci spiegò che per lui era stato necessario parteciparvi, per non essere escluso e anzi per giungere al vertice, ma poi sarebbe iniziata la fase della razionalizzazione e del cambiamento. Per dare una dimostrazione di quanto andava ripetendo ci indicò le sue prese di posizione pubbliche sulla stampa: la richiesta di trasferire in una sede centrale e neutra la gestione degli appalti, per sottrarla alle influenze locali e agli appetiti della mafia e delle imprese corruttrici. Ci disse delle minacce che aveva ricevuto e dell’ostilità che gli era stata manifestata non soltanto da parte dei mafiosi ma anche dei politici. Solo dopo aver fatto questa lunga premessa iniziò ad aprirsi e ci raccontò tutto. E lo fece fidandosi di noi che avevamo avuto la pazienza di ascoltarlo.
(…) E così ci raccontò quel mondo dal di dentro e ci disse che tutto partiva sin dal momento in cui si decideva di impegnare i fondi da spendere per le opere pubbliche. Ci spiegò con le sue parole che c’era chi si occupava «della gestione degli appalti, delineando il percorso attraverso il quale, dopo che veniva impegnata la spesa pubblica, si procedeva ad individuare gli strumenti tecnico amministrativi per giungere all’assegnazione degli appalti … mentre la distribuzione e turnazione degli appalti tra le imprese avveniva viceversa attraverso una intesa tra le medesime». Ci spiegò che «in definitiva la razionalizzazione degli appalti … passava attraverso il condizionamento di tutte le gare, mediante la presentazione di domande di appoggio, l’astensione dalla partecipazione alle gare da parte di imprese che avrebbero dovuto risultare aggiudicatarie di altre gare, dalla predisposizione di consorzi tra imprese che realizzavano caratteristiche confacenti a quelle previste dal bando così da consentirne l’esecuzione anche ad imprese che singolarmente considerate non avrebbero potuto partecipare».
Avevamo trovato in quel modo la chiave che serviva a decodificare la montagna di carte che avevamo sequestrato. Le centinaia di domande di partecipazione, ribassi, esclusioni, rinunce – che a noi apparivano incomprensibili – in realtà ruotavano come in un carosello in cui tutto era già previsto e pianificato. Non solo per Catania, ma per la Sicilia intera, sarebbe stato un vero terremoto. Venivano chiamati in causa imprenditori, politici e cavalieri vecchi e nuovi, come protagonisti di questo grande gioco. E poi ci parlò delle tangenti, del pagamento di denaro che remunerava gli appalti truccati. A noi non sembrava vero di poter apprendere tutte quelle notizie di reato in una volta sola. Ci disse che «negli anni tra il 1988 ed il 1992 il bilancio complessivo della Regione Siciliana sarà stato pari ad una cifra quantificabile in ventimila miliardi. Di questi oltre mille miliardi venivano destinati alla realizzazione di opere pubbliche. L’ammontare delle tangenti versate dalle imprese aggiudicatarie degli appalti può essere commisurato nell’ordine del 2,5%. E pertanto» concluse «l’ammontare complessivo del denaro proveniente dagli appalti ed utilizzato per finanziare i partiti ammontava a circa venticinque miliardi l’anno».
Quei numeri non erano le cifre estimative di uno studioso di fenomeni di corruzione. Erano i dati che provenivano dalla viva voce di chi era stato il presidente della Regione Siciliana.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA