Politica
Centrodestra, Musumeci a Roma tra palco e realtà: «Condannati a restare uniti»
Sì, c’è andato. Perché il punto, stavolta, non era se lo notassero di più se non veniva o se veniva e stava in disparte. Nello Musumeci, nella piazza del centrodestra che intima lo sfratto al governo Conte, non poteva mancare. «Mi ha invitato personalmente Salvini», rivela il governatore a chi gli chiede della presenza, con annuncio last minute ieri, poco prima di salire sull’aereo per Roma.
«Il centrodestra è condannato a restare unito, vince solo se resta unito. Non possiamo dividerci e lasciare l’Italia in mano alla demagogia e alla sinistra». Musumeci scandisce sul palco di piazza San Giovanni questo classicissimo della sua oratoria, in un sabato pomeriggio di lotta, in cui smette i panni di governo. «Mi sono emozionato, è stata una piazza bellissima, in cui mi sono sentito a casa mia: il centrodestra c’è e dev’esserci nelle istituzioni. Sono molto soddisfatto», confessa a La Sicilia in serata. Soddisfatto anche per il fatturato (politico) di un intenso giorno di public relation ad alto livello. Già in mattinata l’incontro colcollega ligure Giovanni Toti a Palermo, poi assieme verso Roma. Con un’idea che frulla: un «cantiere fra tutti i movimenti e i gruppi di centrodestra che non stanno dentro i tre contenitori principali». Ovvero: Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia. Eppure con i tre rispettivi leader, ieri, Musumeci ha incroci affettuosi, seppur fugaci. Una vigorosa stretta di mano con Matteo Salvini e il reciproco impegno di «vedersi presto in un altro contesto». E una strizzata d’occhi sul palco quando il governatore parla di immigrazione: ««Voglio dire grazie a Lampedusa, lasciata sola con i vivi e con i morti. La mia regione è di nuovo un enorme campo profughi, con l’Europa che si gira dall’altra parte». Ovazione persino più calorosa di Pontida.
Poi un bacio di (tombale?) disgelo con Giorgia Meloni, preceduto dalla rimpatriata col governatore dell’Abruzzo, Marco Marsilio (Fdi), che si spinge in un corteggiamento esplicito: «Nello, ma che aspetti a passare con noi? Saremmo una bella squadra». Infine, la chiacchierata con Silvio Berlusconi, «molto informato sui problemi finanziari della Regione e sempre più convinto di un piano Marshall per la Sicilia». Di pirsona pirsonalmente, il Cav ripete il vaticinio telefonico di un mese fa: «Gaetano Armao non si tocca, è una mia scelta di fiducia, la confermo», così chiudendo l’Opa ostile di Gianfranco Miccichè sul vicepresidente e assessore forzista.
Salvini, Meloni, Berlusconi, e tanti altri. Una collezione di foto da instagrammare, degna di un influecer di rango nel centrodestra. Ma con chi lo farà il selfie definitivo? «Nessun pregiudizio. Sulla scelte, alleanze e confluenze, il mio movimento deciderà al momento giusto». Nulla di nuovo. La novità è la sfida costruttiva al ministro del Mezzogiorno, Peppe Provenzano, in queste ore nella sua Sicilia: «Ha annunciato un Piano per il Sud nella manovra, del quale non riesco a identificare – sibila Musumeci – né i contorni, né i contenuti». Da qui la proposta di «un incontro operativo fra tutti i governatori meridionali», con un tabù da sfatare: «Non servono risorse aggiuntive, ma strumenti più efficaci e deroghe sulle procedure che rallentano progetti e spesa». Tutto ciò – e qui torna il Musumeci leader politico – «nella speranza che questo governo, forse peggiore persino del precedente, vada via al più presto».
Fra palco e realtà: il governatore si gode questa giornata da leone del «centrodestra del buon governo», dimenticando i tormenti palermitani. Senza ammettere – al telefono, di ritorno dalla manifestazione – la rabbia per un “modello Sicilia” (il centrodestra unito e vincente) di gran moda proprio quando alla Regione i mal di pancia diventano dissenteria politica. I «calci negli stinchi» che confessa di ricevere dall’Ars? «Una tara antropologica con la quale bisogna convivere. Con santa pazienza». Ma nemmeno un’apertura a chi lo vorrebbe meno «scollegato» con partiti e aula? «Il compromesso fa parte della politica. Ma si fa verso l’altro, non al ribasso. Ci sono cose che non sono disposto a fare: la politica del “particulare” e delle prebende non paga e non fa parte del mio codice genetico». E, al tramonto, l’ultima sfida ai peones recalcitranti: «Io ho promesso ai siciliani di cambiare questa Regione, non che gli altri avrebbero cambiato me».
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