Catania. C’è una luce in fondo al tunnel. Flebile e distante, se la si scorge oggi. Con la Sicilia sull’orlo della crisi finanziaria. Eppure a Roma, di qui a poco, potrebbe materializzarsi il deus ex machina delle tragedie greche.
A Palazzo d’Orléans, anche per scaramanzia l’argomento non viene esplicato. «Aspettiamo», è l’unica parola smozzicata che trapela. Analogo silenzio dagli assessorati all’Economia e alla Salute, pur essendo entrambi destinatari di una relazione – quattro pagine, fitte di tabelle e numeri, firmate dal ragioniere generale della Regione, Giovanni Bologna – sulla quale sono riposte molte aspettative. Un po’ più che semplici speranze.
Il governo regionale gioca il jolly. Che può fruttare, a breve termine, circa 450 milioni (coincidenza: poco più della cifra dell’ultima tranche di disavanzo), con un moltiplicatore di 10 volte tanto in un’eventuale trattativa con il governo nazionale.
Quello della Ragioneria è una certificazione chiesta dalla Corte costituzionale, in un contenzioso Stato-Regione. L’oggetto è noto. Le radici affondano in una scelta del governo di Romano Prodi, tornata alla ribalta con la Finanziaria regionale 2018, in cui furono inseriti 600 milioni che «lo Stato deve restituire alla Sicilia». Così, ad aprile scorso, l’assessore all’Economia, Gaetano Armao, spiegava l’iniziativa: «La Regione ha indicato in entrata 600 milioni di trasferimento di accise, secondo le previsioni della finanziaria dello Stato 2007 che non hanno mai trovato applicazione, ma sono ancora vigenti e prevedono la retrocessione di tale importo delle accise, incassate dallo Stato, per contribuire alla spesa sanitaria regionale». La somma è stata appostata in un capitolo “congelato”, da utilizzare soltanto dopo l’esito del contenzioso.
Ovviamente su quella legge regionale (la 8/2018) è stata sollevata questione di legittimità costituzionale. In materia c’è già un orientamento che sembrava consolidato. Nel 2012 la Regione (su iniziativa del governo di Raffaele Lombardo) arrivò a contestare la costituzionalità della legge di bilancio statale, poiché non prevedeva proprio il trasferimento delle accise. Ma la Corte (sentenza 246 /2012) rigettò il ricorso, legittimando così la condotta dello Stato , come già in precedenza con la sentenza 145/2008. Stavolta il governo di Nello Musumeci, con Armao nel medesimo ruolo di sette anni fa, ha rilanciato la sfida, ma con una strategia diversa. E ha ottenuto un primo risultato: la Corte costituzionale, con la sentenza-ordinanza istruttoria 197/2019, ha richiesto un «supplemento istruttorio» per verificare se le due parti abbiano adottato «una corretta ripartizione delle risorse finanziarie relative alle accise» e se risulti infondato, come sostiene la Regione, il rifiuto dello Stato di corrispondere la somma. La Consulta, sulla devoluzione delle accise da parte dello Stato per finanziare i Lea (Livelli essenziali di assistenza), precisa che deciderà «dopo averne appurato l’integrale finanziamento».
E qui si arriva al dossier che La Sicilia ha avuto modo di consultare. L’analisi della Ragioneria riguarda il finanziamento della spesa sanitaria nel 2018, anno del bilancio oggetto del contenzioso. Ebbene, questi sono i dati: a fronte di entrate di 8.805.654278,04 euro, la Regione l’anno scorso ha speso 9.256.017.491,20. E dunque lo «squilibrio» è di oltre 450 milioni. La tesi è che in Sicilia, per garantire i servizi sanitari ai cittadini «costituzionalmente garantiti», la cui spesa è «incomprimibile», lo scorso anno s’è dovuto spendere quasi mezzo miliardo in più. Sottraendolo da spese sociali, servizi pubblici essenziali e altre «rilevanti funzioni». E non solo. Per coprire i fondi dei Lea non erogati dallo Stato, la Regione «si è trovata costretta a peggiorare il disavanzo» 2018, per coprire il quale ora stringe la corda nel bilancio 2019.
La Regione dovrà presentare entro domani il conteggio certificato dalla Ragioneria; anche lo Stato, chiaramente, farà lo stesso. «Ma i numeri sono numeri: inequivocabili», è l’ottimistica tesi sussurrata nel governo regionale. Che, aspettando la sentenza della Corte costituzionale prevista entro fine anno, punta all’uovo (450 milioni di restituzione di fondi statali), ma pregusta anche l’uovo. Perché, semmai fosse riconosciuto il credito sul bilancio 2018, il principio della cosiddetta “debenza pluriennale” costringerebbe il governo nazionale a sedersi a un tavolo per discutere gli ultimi 10 anni (esclusi dalla prescrizione) di conti in sospeso con la Sicilia. Il che, secondo una stima palermitana, significa una trattativa che si aprirebbe con un potenziale credito della Regione di 4-4,5 miliardi. Trattabili, s’intende.
Twitter: @MarioBarresi