Arrogante, impulsivo, prepotente, “Cinghialone”, latitante ad Hammamet. Oppure modernizzatore della politica e difensore della libertà, sia individuale sia dei popoli, esule, un nuovo Garibaldi. Chi fu veramente Bettino Craxi, segretario socialista dal 1976 al 1993, presidente del Consiglio dal 1983 al 1987, morto 20 anni fa in Tunisia con un carico di procedimenti giudiziari e di condanne a seguito delle indagini di Tangentopoli? Ne parliamo con Salvo Andò, ministro per la Difesa dal 1992 al 1993, che per 20 fu vicino al segretario socialista. Oggi Andò è presidente di LabDem e dell’Osservatorio mediterraneo per i Diritti Umani.
Il primo incontro
«Nel 1976, dopo pochi giorni dall’elezione di Craxi alla guida del partito (al congresso del Midas a Roma, ndr) – racconta Andò – gli inviai una lettera per illustrargli la situazione organizzativa del Psi in Sicilia e la delusione che vivevamo noi giovani socialisti. Il segretario mi rispose, mostrandomi di conoscere il caso Catania e invitandomi ad avere fiducia nella sua azione di rilancio del partito». Craxi mantenne fede alla promessa e di lì a poco inviò come commissario a Catania Gianni De Michelis, allora responsabile nazionale dell’Organizzazione. «Ma il nostro primo colloquio vero e approfondito – continua l’ex ministro della Difesa – avvenne all’inizio degli anni ’80, quando scoppiò lo scandalo P2, che si preannunciava come un potenziale terremoto politico per la Repubblica. Per quanto fossi un deputato alla prima legislatura, Craxi mi comunicò che sarei andato a far parte della Commissione d’inchiesta sulla P2. E così fu. Anzi, venni chiamato a ricoprire la carica di vicepresidente della Commissione».
Andò, docente di Diritto costituzionale, ricorda di aver «lavorato tantissimo in quella commissione» e che le audizioni furono spesso oggetto di clamorose rivelazioni che «talora misero ingiustamente alla berlina persone perbene». Di lì a poco tempo, al congresso di Palermo del Psi, Andò entra nel comitato centrale e in direzione e i rapporti con Craxi si infittiscono.
Il Concordato e i rapporti con Papa Wojtyla
Nel 1984 Craxi firma il nuovo Concordato con la Santa Sede. Dopo tanti governi a guida Dc è cosa strana che a siglare un Patto col Vaticano sia stato un leader socialista. «Craxi – spiega Andò – era un laico, ma non un laicista. Nel suo progetto di pacificazione e modernizzazione del Paese c’era una maggiore trasparenza nei rapporti fra Stato e Chiesa, eliminando anacronistici privilegi, ma all’interno di un regime concordatario. Craxi riteneva inadeguato – prosegue Andò – il Concordato dell’era mussoliniana, ma non era contrario al regime concordatario. E poi aveva una grande simpatia per il Papa polacco».
Fra le carte di Craxi ad Hammamet è stata trovata la copia di un messaggio inviato dal leader socialista a Giovanni Paolo II tramite don Verzé il 29 novembre 1999. “La unica grande fiducia – scrive Craxi – è in lei. Offro le mie sofferenze per il mio paese e per le intenzioni di Vostra Santità”. «Craxi – incalza Andò – apprezzava molto Wojtyla, perché era il Papa che solidarizzava coi lavoratori che si battevano per la democrazia. Bettino aveva dato grande sostegno a Solidarnosc e si era speso a favore dei dissidenti nei Paesi dell’Est. Aveva persino fatto eleggere in Italia nelle liste socialiste al Parlamento europeo il dissidente cecoslovacco Jiri Pelikan».
La tragedia di Moro
Durante il sequestro Moro, Craxi fu tra i pochi a sostenere la linea della mediazione. «Tentate l’impossibile per liberare Moro», disse nel dibattito parlamentare che seguì al rapimento del leader democristiano. «Craxi – spiega Andò – sulle questioni di principio non accettava compromessi. E lui era convinto che la persona umana fosse un bene supremo che lo Stato deve sempre proteggere. Che lo Stato lasciasse morire un leader politico in mano ai brigatisti, per Craxi era un vulnus intollerabile per il futuro della democrazia».
Il corridoio umanitario opzione negata
Marcello Sorgi nel suo recente volume “Presunto colpevole. Gli ultimi giorni di Craxi” sostiene che «Moro e Craxi hanno avuto lo stesso destino: cadere vittime di un’indifferenza e di una spietatezza che non si aspettavano».
Per Andò l’intransigenza del Pci e dei partiti di governo nella trattativa su Moro e nella decisione se concedere o meno a Craxi un corridoio umanitario risponde a logiche diverse. «Sul caso Moro – sostiene il presidente di LabDem – il Pci voleva dimostrare la propria estraneità a qualsiasi forma di sovversivismo politico e togliere dall’album di famiglia le foto più imbarazzanti. Il no al rientro di Craxi in regime di libertà scaturiva, invece, da una preoccupazione diversa. C’era, infatti, chi riteneva che Craxi essendo stato accusato per gravi reati non potesse usufruire di un regime di libertà compatibile con la gravità della sua malattia. Quindi: nessun privilegio a un leader politico, anche se gravemente ammalato. E c’era anche chi temeva che l’ex segretario Psi tornando in Italia potesse parlare e svelare chissà quali segreti. Ma Craxi non era politico che raccoglieva dossier; credeva al primato assoluto dei partiti e delle persone».
Il caso Sigonella
Nell’ottobre 1985 la crisi di Sigonella, con lo scontro sfiorato fra carabinieri italiani e forze speciali Usa, mise a rischio i rapporti diplomatici fra Italia e Stati Uniti. Gli americani avevano dirottato a Sigonella un aereo di Stato egiziano che aveva a bordo i 4 dirottatori dell’Achille Lauro e i due mediatori dell’Olp che avevano consentito il rilascio degli ostaggi e della nave. Gli statunitensi volevano trasferire i dirottatori e i due esponenti dell’Olp in Usa per processarli. In quella occasione Craxi difese la sovranità del Paese.
«Craxi – racconta Andò – non era nemico degli Usa e, nonostante il braccio di ferro di Sigonella, mantenne buoni rapporti con Reagan. Bettino era un filo-atlantico, ma non voleva essere servo degli Usa. Sentiva che l’Italia e l’Europa dovessero coltivare una propensione mediterranea in proprio. Per questo motivo una ragionevole infedeltà atlantica riteneva fosse indispensabile per tutelare gli interessi nazionali. E su questo punto si ritrovava d’accordo con Giulio Andreotti. Quando si trattò di far capire agli Usa che i nostri carabinieri erano disposti a tutto per difendere la sovranità del Paese, Craxi si assunse tutte le proprie responsabilità».
Cosa resta di Craxi
Craxi è morto il 19 gennaio del 2000 ad Hammamet. Quale eredità ci ha lasciato? «Il lascito più grande di Craxi – risponde Andò – è la sua idea di libertà. Secondo lui non c’è nessun valore che possa prevedere la privazione ingiustificata della libertà di un individuo o di un popolo. Per questo motivo egli fu un fiero oppositore dei regimi comunisti e fascisti: protesse i dissidenti dell’Est e contrastò le dittature sudamericane».
«Craxi – aggiunge Andò – sostenne il primato della politica e il rifiuto intransigente dell’antipolitica, che considerava il male assoluto». Quando era da poco divenuto presidente del Consiglio, Claudio Signorile lo fece incontrare con Gianni Agnelli. Quest’ultimo, dopo i convenevoli di rito, cominciò a dare consigli al premier. «Craxi – riferisce Andò – si alzò di scatto e disse: “Avvocato, lei pensi a fare le auto, alla politica ci pensiamo noi”». Oggi, per il ventennale dalla sua morte, c’è una sfilata di leader di centrodestra che rivendicano l’eredità craxiana. «Non c’è niente di più sbagliato – incalza Andò -. Craxi è stato un leader della sinistra. Il suo sogno era l’unità socialista; la sua prospettiva era il riformismo nel governo del Paese».