PALERMO – L’anno cruciale è il 1991, quando Cosa Nostra si rende conto che lo Stato fa sul serio e che il futuro per l’organizzazione criminale sarà più duro del previsto. Nel ’91 le aspettative riposte nella sentenza della Cassazione sul maxiprocesso cominciano a vacillare: Giovanni Falcone diventa direttore generale degli Affari penali del ministero della Giustizia con Claudio Martelli e fa di tutto perché l’atto di accusa a Cosa nostra non venga assegnato al giudice Corrado Carnevale, noto come «l’ammazzasentenze». Riina e i suoi avevano assicurato ai picciotti che gli ergastoli sarebbero stati cancellati. Ma capiscono presto che le cose non andranno come previsto.
Comincia così, coi timori del padrino corleonese, la narrazione della Procura della cosiddetta trattativa Stato-mafia. Dopo quattro anni e mezzo di processo, 202 udienze, oltre 200 testimoni sentiti, i pm debuttano nella requisitoria e tirano le somme ricostruendo il contesto in cui, con l’intermediazione dei vertici del Ros dell’epoca come mario Mori e Antonio Subranni, sarebbe maturato il patto tra pezzi dello Stato e boss. Dieci gli imputati – Riina nel frattempo è morto – tra capimafia, carabinieri, pentiti ed ex politici come Marcello Dell’Utri e Nicola Mancino. Gli incubi di Riina, racconta il pm Roberto Tartaglia, prendono corpo il 30 gennaio del 1992, quando la Cassazione conferma la sentenza del maxiprocesso. La guerra comincia allora. La strategia è duplice: punire chi non ha mantenuto i patti, Salvo Lima, Calogero Mannino, Carlo Vizzini e Salvo Andò, e intimidire chi è al governo e la classe politica che sarebbe venuta in futuro. Dice Brusca agli inquirenti: «con quegli attentati noi facevamo anche politica». Ma nel corso dei summit in cui si mettono a punto le linee della nuova strategia i boss discutono anche degli argomenti che più hanno a cuore: l’abolizione degli ergastoli, i pentiti, l’alleggerimento del regime carcerario: punti che poi, sottolinea il pm, saranno elencati nel «papello». Il pizzino che avrebbe contenuto le richieste di Riina allo Stato per far cessare le stragi e che è uno dei passaggi cruciali del processo. Il 12 marzo del 1992 viene ucciso l’eurodeputato dc Salvo Lima, primo della lista dei «nemici». Un delitto di cui Falcone comprende subito la gravità. «Ora sta per succedere di tutto, perché si è rotto un equilibrio», dirà il giudice. Ma Falcone non è il solo a capire la portata di quell’omicidio: in una lunga serie di documenti ufficiali, 12 circolari, uomini delle istituzioni come il capo della polizia e il ministro dell’Interno, parlano di «rischio di destabilizzazione e di un clima in intimidatorio che mira a fare perdere credibilità alle istituzioni e interrompere linea di fermezza delle istituzioni».
«Al di là della retorica dai protagonisti della vicenda che hanno ribadito la fermezza della linea dello Stato, la storia dimostra come una parte importante e trasversale delle istituzioni, spinta da esigenze personali, egoistiche, ambizioni di potere contrabbandate per ragioni di Stato, ha cercato e ottenuto il dialogo e parziale compromesso con Cosa nostra violando le regole e ottenendo risultati devastanti: la realizzazione di uno dei desideri più antichi dei vertici di Cosa nostra: la mediazione», ha detto Tartaglia che domani proseguirà la sua ricostruzione.