PALERMO – «Avevo dato questa casa a Giuseppe in segno d’amicizia. Io mi sento responsabile di tutto, sono in mano alla giustizia. Dieci anni fa mi avevano condannato. Ma dopo non mi è mai arrivata nessuna carta che mi chiedeva di abbattere la casa. Dieci anni fa io avevo lì la mia residenza. Poi l’ha avuta mio figlio. Quella era casa mia. Io entravo e uscivo quando volevo». Piange Antonino Pace mentre, con a fianco la moglie Concetta Scurria, parla di Giuseppe Giordano che ha perso nove familiari, rimasti intrappolati nella villetta abusiva di Casteldaccia, dove stavano festeggiando il compleanno della bimba più piccola, investita dall’acqua e dal fango della piena del fiume Milicia.
«Sono disperato per quello che è successo a Giuseppe, se avessi saputo che poteva capitare una cosa simile non gli avrei mai dato le chiavi», aggiunge davanti ai cronisti convocati dal legale della coppia per fornire la propria versione dei fatti. Pace è un operatore sanitario, lavora al Policlinico di Palermo. «Noi abbiamo saputo della tragedia solo la mattina successiva, quando abbiamo acceso la tv – afferma Concetta Scurria -. Abitiamo a Palermo nella zona di Via Oreto perché mio marito lavora qui. Non avremmo mai potuto pensare che i Giordano fossero in pericolo. Come mamma e come nonna sono disperata. Sarei voluta morire io al posto loro».