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Fava: «La mia antimafia rompicoglioni. Crocetta? Un “vassallo” piegato ad alcuni interessi»

Di Mario Barresi |

Catania – Una «reazione di sistema» contro «una commissione che si fa delle domande» e «soltanto per il fatto stesso di porsele, si macchia di lesa maestà, di regicidio anche nei confronti di chi salito sul carro di Tespi, assiso in cima» al firmamento di un’altra antimafia, quella «dell’autocertificazione» e dei «tanti punti esclamativi nei comunicati», che si sente «immune da qualsiasi pensiero critico». Per dirla in brusca sintesi: «Noi stiamo pagando il fatto di essere rompicoglioni», sbotta Claudio Fava. Che di commentare l’intervista di Rosario Crocetta non avrebbe proprio voglia.

Eppure, in un lungo colloquio con La Sicilia, il presidente dell’Antimafia regionale parla anche dell’ex governatore (che ha motivato il rifiuto di presentarsi in audizione sul caso dello scioglimento di Scicli dicendo che si sente «perseguitato» da Fava, che «mi considera un nemico», e da una «commissione politicizzata»), senza perdersi in discorsi troppo lunghi. «Capisco anche il disagio e la rabbia di chi è stato un fedele e pirotecnico esecutore di ordini», Crocetta, «un luogotenente che rispondeva battendo i tacchi ai comandi di Lumia, Montante e Catanzaro», un «vassallo», che «per la pura vanità di fare il governatore» ha piegato la sua «fragilità politica» ad «alcuni interessi» e adesso «paga anche le colpe degli altri». Del resto, annota il deputato regionale dei Cento Passi, «quando si risponde con gli insulti significa che non si hanno argomenti» e magari quando si rifiuta un’audizione «si ha paura di sentirsi fare domande scomode», le stesse alle quali pure «i predecessori di Crocetta, compreso Cuffaro, non si sono sottratti».

Ma stavolta non è una questione di solitudine dei numeri primi. Fava rivendica, «con orgoglio», il lavoro della sua commissione e la «forte consapevolezza politica» delle relazioni di questi due anni e mezzo (sistema Montante, depistaggio Borsellino, attentato ad Antoci e rifiuti, per citare quelle approvate), tutte «votate all’unanimità non certo per fare una cortesia a me» e in alcuni casi «toccando corde sensibili per le parti politiche» dei deputati, che hanno dimostrato di «sentirsi componenti della commissione, prima ancora che esponenti di questo o quel partito». Ed è anche per difendere «l’istituzione Antimafia» dai tentativi di delegittimazione, che il presidente Fava rivendica un lavoro che ha toccato «nervi coperti, scorticati e portati al vivo». Molto più del passato, più o meno remoto, in cui farsi domande scomode era un tabù. Come sull’affaire dei rifiuti: nella «coraggiosa inchiesta» dei pm di Catania sui Leonardi «per la prima volta, il gip di Catania usa le stesse parole con cui la commissione, prima com’è giusto che sia, aveva denunciato un sistema perverso» in cui la Regione è «succube degli interessi dei privati» e l’Antimafia «continuerà a chiedere perché il primo atto del governo Musumeci fu l’autorizzazione del mega-ampliamento della discarica di Lentini, così come chiediamo di revocare la proroga di dieci anni all’Oikos, concessa lo scorso agosto, un mese dopo la condanna per fatti corruttivi anche nello stesso iter».

Il link dell’immondizia apre quello di una potenziale “cricca degli scioglitori dei Comuni” e l’indagine, quasi conclusa, su Scicli, potrà essere una delle prove che in ballo «ci sono interessi più forti». Altrimenti non si spiegherebbe perché «è stato posto il segreto» da Aisi e Copasir, un muro di gomma su cui rimbalza l’Antimafia che ha chiesto spiegazioni sull’interessamento dei servizi segreti, con l’username “foca648” (in uso all’Aisi) che interroga la banca dati interna cercando notizie su sindaco, assessore e dirigente dell’Ecologia di un piccolo comune ibleo dove «un ex pollaio deve diventare una discarica di rifiuti speciali». E poi ancora la relazione su Antonello Montante («una rete di relazioni e di vischiosità di cui un pezzo di democrazia sospesa del nostro Paese risente ancora oggi, fra solidarietà e servitù») e quella sul depistaggio su Via D’Amelio, in cui «al di là dello stretto imbuto del codice penale, abbiamo documentato delle responsabilità oggettive, fra distrazioni, pressapochismo e ansia di carrierismo» anche dei magistrati all’epoca a Caltanissetta, compresi quelli per i quali la commissione di Fava ha pagato «il prezzo dell’ignominia soltanto per aver chiesto di audirli».

Ma la commissione dell’Ars è nel mirino di chi l’accusa di «mascariamento» degli eroi antimafia. Partendo da alcune notizie – soprattutto legate al caso di Giuseppe Antoci – che Fava accetta di commentare. La promozione degli uomini della scorta dell’ex presidente del Parco dei Nebrodi, «per quattro anni ignorati dai vertici della polizia, che in una situazione normale avrebbero dovuto encomiarli solennemente alla prima festa nazionale dopo il salvataggio» e ora agli onori della cronaca «a conclusione di un iter iniziato, e già pubblicizzato, a gennaio scorso, e ora ribadito con un comunicato non del Viminale ma dello stesso Antoci». E, soprattutto, l’audizione di Maurizio de Lucia in Antimafia nazionale, con la conferma che quello fu un attentato di mafia. Una «verità processuale», del resto, compresa fra le tre ipotesi della commissione regionale, in ognuna delle quali Antoci era definito «vittima», compresa quella della possibile simulazione. Crocetta parla di relazione «delegittimata dai magistrati». Il procuratore di Messina «s’è mosso come se calpestasse gusci d’uovo. Ha detto – ricorda Fava – che le indagini sono ancora aperte, non poteva certo dire che i suoi predecessori s’erano sbagliati». E non poteva dire ciò che lo stesso Fava ha raccolto «off-record da magistrati, dirigenti di polizia e del Viminale», compreso «qualcuno che in pubblico è costretto a dire che abbiamo scritto cazzate», e che, per la prima volta, il presidente dell’Antimafia siciliana decide di rivelare: «Su Antoci, mi hanno detto, avete scritto la verità, ma noi non potremo mai dirlo». Una presunta verità nascosta che alimenta la rabbia di Fava, sul quale il ventilatore dei social spruzza fango alimentato dalle «sarabande dei ragazzotti delle Iene», testimonial di «un mondo impazzito, in cui la rappresentazione della realtà vale più della realtà stessa».

Per analogia amicale si arriva a Paolo Borrometi («Paolino beddu, un eroe trasformato in un bersaglio», nella carezzevole definizione di Crocetta), il giornalista antimafia denunciato dall’Antimafia dell’Ars, con l’ombra di un articolo “taroccato” sul caso Scicli. «Nessun commento, da questo momento parleranno gli atti giudiziari», taglia corto Fava. Che, sull’ipotesi di calunnia all’istituzione, ha trovato il conforto del consiglio di presidenza dell’Ars, guidato da Gianfranco Miccichè: negli scorsi giorni è stata deliberata la costituzione di parte civile, separata rispetto alla commissione, anche dell’Assemblea, in caso di processo a Borrometi. Un atto passato a maggioranza, col voto contrario dell’ex grillina Angela Foti, che nel verbale ha motivato con il riferimento a una «guerra fra bande dell’antimafia» il suo no. «Un commento miserabile», chiosa Fava.

Fra le teorie più suggestive di Crocetta c’è la «proprietà transitiva» dell’inimicizia politica, secondo la quale il presidente dell’Antimafia attaccherebbe l’ex governatore «perché Lumia è il suo nemico numero uno». E qui Fava sfoggia il sorriso che non t’aspetti. «Io non ho nemici, né numero uno, né due, né tre». L’ex “senatore della porta accanto” è «un elemento bizzarro e inquietante del folclore politico locale», un «potere nel potere» che ha giocato il suo ruolo «con assoluto senso di spudoratezza e d’impunità». E, per dimostrare che «nel mio ruolo di presidente, così come in tutto ciò che ho fatto prima, non ho mai guardato ai nemici, ma neanche agli amici», Fava ricorda quando, eurodeputato eletto con l’Ulivo, «da relatore sulle “extraordinary renditions” della Cia nella lotta al terrorismo internazionale pretesi che fossero rivelate le responsabilità del governo Prodi sul caso Abu Omar». E, con lo stesso spirito, ora chiede a Nello Musumeci di spiegare perché, «il giorno dopo gli arresti dei Leonardi», sia andato a Riscossione Sicilia a «baciare la pantofola» di Vito Branca, «stimato professionista e persona a me amica» (fu l’avvocato che aiutò I Siciliani orfani di Pippo Fava, ma anche il tesoriere regionale dei Ds all’epoca della segreteria di Fava Jr.), che nell’ordinanza, da presidente del nuovo Cda di Sicula Trasporti, «appare come il suggeritore di strategie, proponendosi come quello che va a parlare con i giudici per risolvere i problemi». Per Fava «mutatis mutandis, fatte le debite proporzioni, Musumeci che rende visita a Branca sembra il ministro Alfano che riceve Montante dopo la rivelazione dell’inchiesta di Caltanissetta».

E ora la sanità. L’indagine dell’Antimafia è partita con l’audizione (croccantissima) dell’ex presidente della commissione Salute all’Ars, Pippo Digiacomo, in era crocettiana finito sott’inchiesta per turbativa d’asta soltanto per aver osato fare «un’operazione matematica molto semplice» che dimostrava come l’appalto per l’efficientamento energetico dell’Asp di Palermo non avesse «alcun risparmio, ma anzi un aumento di costi». Ma era un’idea dell’antimafiosissimo Antonio Candela, ora arrestato per le mazzette e disconosciuto da Crocetta, che accolla all’ex assessora Lucia Borsellino una nomina fatta «con entusiasmo» da lei e «dai suoi uffici». Ecco, Candela è proprio l’incarnazione dell’antimafia degli eroi «autoreferenziali, autoproclamati e autocertificati» a cui Fava ha dichiarato guerra. Combattendo «per la ricerca della verità», con un’arma che fa paura: «Facciamo domande per trovare risposte». Che non sempre arrivano. Ma che sono l’unico obiettivo di questa «antimafia dei rompicoglioni» per colpa della quale Fava – con l’aggravante di essere indicato fra i potenziali candidati a governatore del “campo largo” di centrosinistra, magari estendibile al M5S – s’è fatto molti nemici. Per loro «l’antipatia» di cui lo addita Crocetta dalla Tunisia è davvero l’ultimo dei problemi.

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