Caso Shalabayeva, la Procura di Perugia ha chiesto il processo per il nuovo questore di Palermo

Di Redazione / 28 Febbraio 2017

Quello di Alma Shalabayeva e Alua Ablyazova, la moglie e la figlia del dissidente kazako Muktar Ablyazov espulse dall’Italia il 31 maggio del 2013, messe su un aereo e rispedite in Kazakistan, fu un rapimento: realizzato grazie ad una ininterrotta sequenza di falsi, abusi e omissioni compiuti da funzionari pubblici italiani e diplomatici kazaki.

La procura di Perugia chiede, ipotizzando questo scenario, il giudizio per 11 persone, confermando le pesantissime accuse ipotizzate a vario titolo nell’avviso di chiusura indagini: sequestro di persona e falso. A doverne rispondere sono due funzionari di vertice della Polizia: l’attuale questore di Palermo Renato Cortese, l’uomo che ha preso Bernardo Provenzano e che all’epoca dei fatti era il capo della squadra mobile di Roma, e Maurizio Improta, attuale questore di Rimini e allora capo dell’ufficio immigrazione della capitale.

Oltre a loro, il procuratore di Perugia Luigi De Ficchy, l’aggiunto Antonella Duchini e il pm Massimo Casucci hanno chiesto il processo per il giudice di Pace Stefania Lavore, colei che firmò la convalida del trattenimento nella «consapevolezza», secondo i pm, che quel provvedimento «costituisse un passaggio essenziale della traduzione forzata» della donna in Kazakistan, per i poliziotti della squadra mobile Luca Armeni e Francesco Stampacchia, per gli agenti dell’ufficio immigrazione Vincenzo Tramma, Laura Scipioni e Stefano Leoni, e per tre funzionari dell’ambasciata del Kazakistan: l’allora ambasciatore Andrian Yelemessov, il primo segretario Nurlan Khassen e l’addetto consolare Yerzhan Yessirkepov.


Nell’avviso di chiusura indagini sono 20 i capi d’imputazione complessivi ipotizzati dai magistrati perugini. Una lunga sequela di omissioni e falsi che avrebbero esposto la Shalabayeva al «concreto rischio di subire violazioni dei diritti umani». «Mediante le rispettive, consapevoli condotte commissive ed omissive», sostengono i pm, poliziotti e funzionari kazaki, con il concorso del giudice di pace, avrebbero «privato della libertà personale» la donna, consentendo il suo trattenimento e conducendo la piccola Alua dalla villa di Casal Palocco all’aeroporto di Ciampino «con l’inganno», sostenendo che l’avrebbero portata in questura per farle incontrare la madre.

Ma non solo: una volta in aeroporto, Shalabayeva e la figlia sono state imbarcate sull’aereo noleggiato dall’ambasciata kazaka «contro la loro volontà e nonostante Shalabayeva avesse in più occasioni richiesto asilo e rappresentato lo status di rifugiato del marito e il pericolo per la propria incolumità in caso di rimpatrio forzato».
Un’operazione che già la Cassazione, nel luglio del 2014, aveva bollato come viziata «sa manifesta illegittimità originaria”: «la contrazione dei tempi del rimpatrio e lo stato di detenzione e sostanziale isolamento della donna, dall’ irruzione alla partenza hanno determinato un irreparabile vulnus al diritto di richiedere asilo e di esercitare adeguatamente il diritto di difesa». Quanto esplose il caso, l’affaire Shalabayeva sfiorò l’allora ministro dell’Interno Angelino Alfano e costò il posto al capo di gabinetto del Viminale, il prefetto Giuseppe Procaccini e il pensionamento anticipato del capo della segreteria del Dipartimento della Pubblica Sicurezza Valeri.

I due, sentiti a Perugia, hanno messo a verbale che il ministro fu informato del blitz nella villa di Casalpalocco, per catturare il dissidente Ablyazov e nulla gli fu detto del fatto che quell’operazione portò invece al fermo della moglie e della figlia e alla successiva espulsione, poiché entrambi non sapevano nulla della piega presa dalla vicenda.

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