La pandemia non frena la fuga dalla Sicilia: «Qui le opportunità non si trasformano in reddito»

Di Carmen Greco / 13 Febbraio 2022
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La Sicilia è la seconda regione d’Italia, dopo la Campania, per perdita di popolazione. È uno dei dati emersi dal report 2022 dell’Istat sulle migrazioni. Un trend, quello dello spopolamento progressivo dell’Isola (e di tutto il Sud) che non si è mai fermato, nemmeno con la pandemia (il flusso è diminuito solo dello 0,9%).

Tra il 2011 e il 2020 le uscite dei giovani del Mezzogiorno verso l’Estero e verso le altre regioni d’Italia hanno determinato una perdita complessiva di oltre 150mila giovani residenti laureati. «Cedendo risorse qualificate – dice l’Istat – senza riceverne altrettante, il Mezzogiorno vede compromesse le proprie possibilità di sviluppo».

Come se ne esce prof Caserta?

«In realtà è un fenomeno che riguarda oggi tutte le aree del mondo. I migranti non sono solo quelli che attraversano il Mediterraneo con i barconi, ma anche quelli che si trasferiscono con le valigie firmate. L’elemento comune a entrambi è l’attrazione verso condizioni di vita migliori. Nessuno è così matto – a meno che non abbia un fucile puntato alla schiena – da spostarsi in aree dove la sua vita sarebbe peggiore. Poi c’è da dire che il movimento di risorse umane che va dal Sud verso il Nord, non è nuovo alla nostra storia, certamente oggi va interpretato alla luce dei cambiamenti in atto. Il trasferimento verso posti dove la qualità della vita, in termini di reddito pro capite, di servizi offerti e di relazioni sociali, è sicuramente migliore, è un comportamento razionale, non è una follia, ma il risultato di un calcolo basato su elementi obiettivi. E questo vale soprattutto per i più bravi. Chi ha aspettative basse si accontenta di quello che c’è, chi ritiene che la sua competenza sia notevole e si aspetta una remunerazione adeguata certamente si sposta in regioni in cui quella competenza viene valorizzata».

 

 

Quali politiche di contrasto allo spopolamento si dovrebbero attuare?

«Innanzitutto dobbiamo riconoscere come il desiderio di scegliere dove vivere sia una parte della modernità. Si nasce in un posto (non per scelta) e poi si può decidere liberamente dove vivere, è un diritto di ciascuno di noi». 

E quando l’elemento di modernità diventa necessità?

«Tutti siamo portati a pensare che vivere nel posto in cui si è nati sia la cosa migliore del mondo, ma non è detto. Negli Usa, per esempio, c’è molta mobilità fra gli Stati, è raro trovare qualcuno che viva e lavori lì dov’è nato. Se il posto in cui si nasce è il migliore del mondo si è fortunati, ma questo si ferma alla dimensione personale. C’è poi una questione più generale. Avere un territorio che si spopola perché non offre a chi è nato lì l’opportunità di continuarci a vivere, è un problema. Se in quel contesto ci sono le risorse naturali, le risorse culturali, le tradizioni, la storia, il cibo, le spiagge, il sole, ma manca il fattore umano, tutto questo non può essere utilizzato da quel territorio».

Praticamente la fotografia della Sicilia…

«Infatti qui tutte le cose di base ci sono, il problema è che non si trasformano in reddito. In questo contesto politico-territoriale chi offre il proprio lavoro, da dipendente o come aspirante imprenditore, vede il suo merito poco remunerato. Nel senso che dovrebbe affrontare dei costi aggiuntivi che chiaramente ne riducono la remunerazione che ritiene giusto di dover ricevere. Un esempio, sono le cosiddette rendite di posizione. In un contesto come il nostro in cui la corruzione è elevata ci sono delle risorse che devono essere destinate al corrotto e, quindi, riducono il vantaggio che ciascuno di noi può avere dal proprio lavoro». 

In generale cosa paghiamo di più?

«La qualità dei servizi: trasporti, giustizia, sanità, educazione, formazione di base e professionale. Tutte queste cose hanno indicatori al Sud peggiori di quelli del Nord e, fatti i calcoli, sono così consistenti da compensare i vantaggi del clima, del cibo, delle spiagge, della natura, belle cose soprattutto per i turisti, ma non abbastanza per chi ci vive».

Eppure il turismo è considerato una via per lo sviluppo in Sicilia…

«Tolti questi ultimi due anni è un’industria fiorente, ma non c’è dubbio che il numero di posti letto in Sicilia sia di gran lunga inferiore a quello di isole più piccole  come, per esempio, le Baleari. In Sicilia c’è un deficit di investimenti anche se le potenzialità sono grandi. Se la Plaja di Catania fosse piena di alberghi probabilmente non sarebbe difficile occuparli nella stagione appropriata che fra l’altro sarebbe più lunga che altrove, il problema è che l’attività di impresa è ostacolata, frenata da tutti questi costi “aggiuntivi” e fra questi, a mio avviso, non c’è l’insularità, invocata da più parti come un ostacolo. Certo può essere fonte di costi, ma anche di vantaggi, basti guardare alle opportunità che offrono le nostre coste. Siamo l’isola più grande del Mediterraneo e questo è un asset, l’altro asset straordinario è l’Etna, ma conosciamo tutti lo stato di quel territorio». 

La questione alla fine è puramente economica?

«C’è un di più di costi che il siciliano, giovane professionista o giovane imprenditore deve affrontare e quindi mettendo tutto sul piatto della bilancia nessuna sorpresa che ci si sposti altrove, è una scelta razionale».

Il PNRR potrà invertire la rotta?

«Me lo auguro, non sono occasioni che si ripetono così facilmente. Dovrà servire al  rafforzamento infrastrutturale, ospedali, scuole, ponti, ferrovie… È l’occasione della vita perché noi siamo carenti proprio su questo aspetto. E poi la manutenzione sulla quale pesa qualche tratto culturale. Se uno ha una perdita d’acqua sul muro, è portato ad aspettare a ripararla  finché quel muro non gli casca addosso. È un esempio banale ma è indicativo di un approccio al futuro cui noi non diamo molta importanza. Se il muro ci casca addosso lo facciamo, altrimenti se ne occuperà qualcun’altro, magari l’anno prossimo. Non è un caso che ponti e strade crollino (anche altrove) ma da noi è peggio  perché di opere infrastrutturali ne abbiamo di meno».

In sostanza manca sempre una vision, una capacità di programmare?

«Manca la capacità di guardare un po’ più lontano e impiegare risorse al che al momento non darebbero risultati immediati. Se uno investe negli asili i bambini che li frequentano oggi voteranno solo fra 15 anni e quindi non è un caso che la scuola sia un soggetto poco frequentato dalla politica. Eppure da lì bisogna cominciare. Il vero impegno per il futuro è sull’istruzione»

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Pubblicato da:
Alfredo Zermo
Tag: emigranti siciliani emigrazione istat maurizio caserta sicilia sud