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L'inchiesta

Dal “peso massimo” Buscetta al “delinquentello” Scarantino

Le rivelazioni di don Masino hanno cambiato la storia della lotta alla mafia

Di Laura Distefano, Laura Mendola |

«Sono stato un mafioso e ho commesso degli errori per i quali sono pronto a pagare integralmente il mio debito con la Giustizia, senza pretendere sconti o abbuoni di qualsiasi tipo. Invece, nell’interesse della società, dei miei figli e dei giovani, intendo rivelare tutto quanto è a mia conoscenza su quel cancro che è la mafia, affinché le nuove generazioni possano vivere in modo più degno e umano». Comincia così il primo verbale di Tommaso Buscetta, il boss dei due mondi per i cronisti e il traditore per i corleonesi. Era il 1984 quando iniziò a collaborare e ad affidare i segreti della mafia siciliana a Giovanni Falcone. Uno scrigno di conoscenze che è ancora oggi la bibbia investigativa per il contrasto alla criminalità organizzata. Grazie a Buscetta conosciamo la struttura, l’organizzazione territoriale, la gerarchia di potere di Cosa nostra. Non fu il primo pentito. Il primissimo fu Leonardo Vitale nel 1973. Che fece il nome di Totò Riina. Fu considerato pazzo: per anni vagò per manicomi criminali. Fu sottoposto anche all’elettroshock. Buscetta, undici anni dopo, disse che Vitale aveva raccontato la verità. E così Cosa nostra lo ammazzò. Le orme di Buscetta le seguiranno altri negli anni a venire. Un esercito di cui è impossibile fare tutti i nomi. Killer sanguinari. Capimafia. Tesorieri. Mandanti. Da Totuccio Contorno a Giovanni Brusca. Se volessimo cristallizzare il periodo dal maxi processo di Palermo agli anni immediatamente dopo le stragi.

Scarantino, il fallimento dello Stato

E nella ricerca della verità delle Stragi in particolare, quella di via D’Amelio, lo Stato cade. Volontariamente o non volontariamente? La verità non è ancora chiara. Qui arriva il piccolo delinquente della borgata Vincenzo Scarantino, piccolo criminale della Guadagna di Palermo, che viene imbeccato secondo la tesi della procura di Caltanissetta, dagli agenti della Mobile di Palermo all’epoca guidati da Arnaldo La Barbera. Un piccolo criminale vestito da boss dai poliziotti i quali gli avrebbero “suggerito” i nomi di chi avrebbe partecipato alla strage di via D’Amelio. E lui in cella da solo a mangiare «il cibo con i vermi» o la minestra con la «pipì» regge al gioco fino a quando quattro anni dopo, esattamente nel 1998, ritratta tutto. Fa un passo indietro, ma ormai è troppo tardi. La macchina per incriminare gli innocenti è partita e la procura di Caltanissetta continua a dargli conto fino a quando Gaspare Spatuzza, meglio conosciuto come “u tignusu” di Brancaccio e braccio destro dei Graviano, lo smentisce. Siamo nel 2008 ma il boss di Cosa nostra già dieci anni prima in un lungo colloquio investigativo diceva che Scarantino e Orofino con via D’Amelio non c’entravano nulla. Poi il “pentito di Stato” Pietro Riggio, di Caltanissetta e agente della polizia penitenziaria, che inizia a raccontare di quegli incontri con «faccia da mostro», cioè Giovanni Aiello che avrebbe fatto parte dei servizi segreti deviati.L’impostura sulla strage di via D’Amelio è ormai servita, lo Stato deve pagare un conto salato a chi in carcere c’è stato da innocente. Così quei boss ora stanno lì accanto allo Stato come parte civile nei processi sul depistaggio di via D’Amelio.

Nessuno con il peso specifico di Buscetta

Sulle stragi ultimamente sono arrivate nuovi input anche dalla parte orientale dell’Isola. Qualche anno fa Maurizio Avola, protagonista del processo Orsa Maggiore a Catania – la madre di tutte le inchieste su Cosa nostra etnea e i Santapaola-Ercolano – ha raccontato di aver avuto un ruolo attivo nell’uccisione di Paolo Borsellino assieme ad Aldo Ercolano, boss di primissimo livello di Catania e condannato per l’omicidio di Pippo Fava. Su quelle dichiarazioni sono partite inchieste e anche richieste di archiviazione della procura nissena. Ma il gip ha ordinato indagini integrative. Da Palermo a Catania, negli ultimi dieci anni non si sono viste defezioni della mafia degne di nota. Tranne qualche eccezione. A Catania l’ex reggente Santo La Causa e Francesco Squillaci (killer del poliziotto Gianni Lizzio), a Palermo Silvio Guerrera e Vito Galatolo a Palermo (anche se tra i due nel 2015 ci fu un confronto durante l’udienza in un processo). Nessuno con il peso specifico da poter essere definito il nuovo Buscetta.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA