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Claudio Baglioni svela: «La mia carriera? Devo tutto a uno zio siciliano»

Di Leonardo Lodato |

Ha rilanciato il Festival di Sanremo. Lo ha rivoluzionato. Gli ha restituito la Musica. non è un mago, ma un architetto-musicista. E risponde al nome di Claudio Baglioni. La sua passione per questo mestiere fatto di note e parole, è ricambiata dall’amore incondizionato di milioni di ammiratori. E la sua musica, piaccia o non piaccia, ha lasciato e continua a lasciare il segno nella storia d’Italia e nel costume dei nostri compatrioti. Senza l’arroganza di voler lanciare messaggi, di voler fare politica a tutti i costi e dimostrando che, ancora oggi, la parola amore può fare rima con cuore. Ma senza quella necessaria banalità.

Se volessimo condensare mezzo secolo di carriera in tre canzoni tra le più significative o, comunque, alle quali si sente più legato: quali indicherebbe?«Quelle che danno più l’idea del percorso e del tempo: “Strada facendo”, “La vita è adesso” e “Mille giorni di me e di te».

Dopo 50 anni e 60 milioni di dischi venduti, dove e come si trovano gli stimoli per fare musica, soprattutto musica di qualità?«Credo che un motivo nasca dalla necessità o forse addirittura da una condizione: non sai fare bene quasi nient’altro e dunque fai questo, che è quello che hai imparato in questi cinquant’anni incredibili, colmi di emozioni, soddisfazioni e successo. Un altro motivo è che il mestiere della musica e delle parole non è esattamente un lavoro. Nel senso che, per quanto impegnativo, non è certo usurante e così uno non smette mai di immaginare che la prossima cosa che farà sarà ancora più bella di quella che ha appena fatto».

La musica oggi si consuma alla velocità della luce. Eppure, c’è un ritorno ad esempio del vinile che pare abbia superato le vendite dei cd. Puntine scricchiolanti e magliette fine che si scontrano con la tecnologia. Torneremo a riassaporare la musica con lentezza, ad ascoltare grandi hit in grado di superare gli ostacoli generazionali come accade ancora adesso con la sua musica?«Non credo si tornerà a questo, perché nessuna cosa torna nello stesso identico modo. Qualcuno lo farà, aumenteranno le persone forse che dedicheranno una parte della loro vita all’ascolto attraverso il vinile, perché, in fondo, la musica registrata è nata proprio intorno al vinile. Quell’oggetto è molto più di un semplice supporto. È un simbolo: un po’ come il pesce per i primi cristiani. Un simbolo e anche un segno di riconoscimento, di appartenenza. Vedi qualcuno che ha un 33 giri avvolto nella sua preziosa busta quadrata – copertina artistica, booklet con foto e testi – e pensi subito che sia qualcuno che ama la musica e che le dedica del tempo; la ascolta e non si accontenta di sentirla. Tutto il resto, invece, viene consumato molto più velocemente: come quando accendi un fiammifero: la fiammata è immediata e luminosissima, ma dura solo il tempo di quel lampo. E non lascia traccia: un istante dopo, infatti, è di nuovo tutto come prima».

Veniamo ai concerti. Un momento totalmente rivoluzionario all’Arena di Verona. Rivoluzione musicale e o anche teatrale?«Più teatrale, scenica e spettacolare che musicale. E certo non perché in questo progetto la musica sarà meno importante. Sono architetto, è vero, ma il mio primo mestiere è e resta la musica. Lo dico, perché è evidente che – in un tour che nasce per celebrare cinquant’anni di carriera – la musica guardi più al passato che al futuro e la “scaletta”, quindi, abbia un taglio più antologico. Parliamo di una quarantina di brani – brano più brano meno – con i quali cercherò di raccontare sia la mia vita musicale che personale. E lo farò, pescando – tra le oltre 400 canzoni scritte – non solo quelle che amo di più, ma anche quelle che il pubblico non ha mai smesso di sottolineare con energia, passione e affetto. Diciamo che la scaletta l’abbiamo fatta insieme. L’aspetto scenico, invece, si annuncia come una vera e propria rivoluzione. Grazie al palco al centro e al pubblico disposto intorno sulle gradinate, infatti, riporteremo l’Arena di Verona alla sua natura e destinazione originali. Nessun occhio vivente l’ha mai vista così. Spettacolo nello spettacolo».

Dopo Verona la Sicilia. Una terra che non lesina nei suoi confronti. Una volta Luca Toni – centravanti del Palermo e della Nazionale – disse che la prima cosa che lo aveva colpito in città era che dovunque andasse sentiva dire “Minchia Toni!”. Questa parola è finita anche in una canzone di Frank Zappa. Lei, a parte questa parola che ormai è nel linguaggio mondiale, da cosa è rimasto colpito da questa terra e della sua gente? Ma vorremo anche sapere se c’è qualcosa che non le piace…. «Ricordo, innanzitutto, un mio zio siciliano: l’unico parente “esotico” della famiglia. Cantava delle filastrocche bellissime, e faceva delle gag molto divertenti. Fu lui a regalarmi la mia prima chitarra: dunque tutto quello che è successo dopo, in un certo senso, è merito suo. Suo e di mio papà, che qualche tempo prima, mi aveva regalato un organetto. È a questo zio siciliano e a mio papà, dunque, che devo dire grazie. Un grazie davvero grande a giudicare da come sono andate le cose. Per quanto riguarda, invece, la terra di Sicilia, la cosa che mi colpì di più durante la mia prima visita (perdonatemi ma non ricordo più esattamente quando) fu la luce. Una luce che non avevo mai visto: intensa, lucida, sconfinata. Ricordo dei pomeriggi interminabili: sembrava che non finissero mai. E poi i profumi: inebriavano al punto da farti girare la testa. Ricordo ancora la sensazione di stordimento, una volta attraversato lo Stretto, per essere entrato in un mondo di profumi intensissimi. E, ogni volta che torno, ritrovo le stesse emozioni. Una cosa che non mi piace, però, della Sicilia c’è: quelli che non la amano».

Ancora una volta si esibirà con palco centrale circondato dal pubblico. Che emozione le da ancora il contatto col pubblico?«L’emozione indescrivibile del contatto; l’incontro ravvicinato e la replica immediata: un abbraccio fisico, reale, immediato e non a distanza. L’emozione è fortissima. Anche perché la risposta arriva subito, non devi aspettare classifiche, dati di vendita o l’auditel del giorno dopo. È emozione pura, diretta, immediata e non è paragonabile a nient’altro. E la scarica di adrenalina che ne ricavi non la raggiungi con nessun’altra attività».

Lei che ha rivoluzionato il modo di fare musica in tv, che ha rianimato e rivitalizzato il Festival di Sanremo, che ne pensa dei talent? Li ritiene una strada obbligata per i giovani, cantanti e non, che vogliono intraprendere la carriera artistica? «I talent hanno avuto – e hanno ancora – il merito di aver fatto capire al pubblico che la musica è un lavoro; un lavoro che richiede mestiere. Bisogna, cioè, imparare a farlo: studiare, esercitarsi e affidarsi a insegnanti e professionisti seri e preparati. Il limite, invece, è nell’idea che a un talent ne debba seguire sempre un altro, un po’ come ogni anno si vendemmia l’uva nuova per fare un nuovo vino. È un limite, perché non è affatto detto che ogni annata sia buona e, soprattutto, non è detto che il vino dell’anno precedente non vada più bene e debba per forza essere buttato via. E così con i talent capita che dei buoni talenti non abbiano il tempo per potersi affermare o, viceversa, che venga offerto del tempo a talenti non altrettanto buoni che, in realtà, non lo meritano. Mi sembra una formula – se non da cambiare – almeno da aggiornare. Anche perché, di solito a pagare il prezzo più alto per queste storture sono proprio i giovani artisti».

Ha raccontato che una volta sua mamma le ha detto di smettere di scrivere canzoni per compiacere i giornalisti. Cosa pensa di questa categoria?«Tutto il bene possibile: dico sul serio. Ho un grandissimo rispetto per chi combatte con le parole. Lo faccio anche io e so bene cosa significa. Il giornalista è uno scrittore quotidiano, che ogni giorno lotta con le parole, spesso sottoposto a forti pressioni, con troppo poco tempo a disposizione e con spazi in pagina non sempre adeguati alle cose che deve raccontare. Ne penso più che bene, dunque. Un vizio dell’informazione italiana in ambito musicale, invece, è che – per come sono strutturate le redazioni – spesso il “cronista” è anche il “critico”. E così ti può capitare di essere intervistato dalla stessa penna alla quale poi sarà affidata la recensione del tuo disco o del tuo live. C’è un certo “conflitto di interessi”, che a volte ti favorisce, a volte ti penalizza. E non è mai un bene. Io credo che la situazione ideale nel rapporto tra “artista” e “critico” sia di non conoscersi, così non ci sono condizionamenti e ognuno è libero di fare al meglio il proprio mestiere. Penso che, quando mia mamma diceva quelle cose, si riferisse a questo. Aveva ragione: ascoltavo troppo i giornalisti. In questi 50 anni, però, devo riconoscere di aver letto cose non sempre positive ma tutte scritte con attenzione e, nella stragrande maggioranza dei casi, con onestà intellettuale. E mi è servito. Molto».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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