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Il chimico catanese che vuole curare l’“Alzheimer dei bimbi”
Da Piano Tavola, paese ai piedi dell’Etna, alla Gran Bretagna (per otto anni) per arrivare a Istanbul, in Turchia, dove vive oggi: particolare – e controcorrente – il percorso accademico e professionale del chimico catanese quarantenne Antonino Puglisi, desideroso non solo di fare ricerca prettamente scientifica, ma anche profondamente interessato al cosiddetto “fattore umano”. Ed è proprio questo forte interesse per l’uomo che lo ha portato a concorrere e a vincere la fellowship Marie Curie, il finanziamento di 146mila euro per due anni (a partire dallo scorso 1 aprile) che la Commissione europea destina a scienziati europei per consentire loro di portare avanti una ricerca indipendente.
Un finanziamento che non viene erogato soltanto nell’ambito dei Paesi dell’Ue, ma anche di quelli “annessi”, come la Turchia appunto, cioè quelli che bussano alla porta dell’Europa o che hanno iniziato un processo di integrazione o vorrebbero iniziarlo.
Il progetto presentato da Antonino Puglisi è stato giudicato valido dalla Commissione Ue: si tratta di sperimentare una metodologia per curare una malattia genetica estremamente rara (ha una incidenza dello 0,001% della popolazione) – e perciò orfana della ricerca delle grandi case farmaceutiche – che colpisce soprattutto i bambini: la sindrome di Niemann Pick di tipo C. Un nome difficile per una malattia devastante, simile nei sintomi all’Alzheimer.
«Io – spiega Antonino Puglisi – sono un chimico organico che si avvicina un po’ all’area della chimica dei polimeri e nel mio cammino scientifico ho intercettato questa malattia genetica rara. Quello che mi ha colpito è stata la grande vicinanza su un tema di ricerca su cui stavo lavorando da anni e questa malattia di cui non avevo mai sentito parlare prima. Ho intuito che potevano esserci delle connessioni significative: allora ho scritto questo progetto. Essendo così rara, pochi studiano questa malattia genetica: ma come scienziato e come uomo ho deciso di usare il mio cuore e la mia testa per impegnarmi a cercare un trattamento di questa sindrome devastante dai sintomi molto simili a quelli dell’Alzheimer».
Il dott. Antonino Puglisi con il prof. Yusuf Yagci
Non per nulla il dott. Puglisi la definisce «l’Alzheimer dei bambini»: «Questa malattia è causata da un accumulo di colesterolo nel cervello. Da circa 10 anni si sa che esiste una classe di molecole che si chiamano “ciclodestrine”, a forma di ciambella, che sono capaci di sequestrare il colesterolo eliminandolo dal cervello. Il punto è però come riuscire a fare arrivare le ciclodestrine dentro il cervello. E questo è il mio progetto: attaccare queste “ciambelle” a dei polimeri per formare delle nanoparticelle che dovrebbero avere il biglietto di ingresso per il cervello. Una volta dentro il cervello, potrebbero così eliminare l’eccesso di colesterolo e riportare questi bambini alle condizioni normali».
Il progetto, della durata di due anni, prevede che Antonino Puglisi si appoggi al laboratorio del prof. Yusuf Yagci alla Istanbul Technical University, dove già da un anno il chimico etneo lavora come visiting scientist con una borsa sovvenzionata dal governo turco. In precedenza, Antonino Puglisi, che si dice «orgoglioso di essere figlio dell’università di Catania», si era laureato in Chimica e aveva fatto il dottorato in Chimica nell’ateneo catanese. Poi, per circa 8 anni, era stato in Gran Bretagna dove aveva fatto un post doc prima all’università di Greenwich e poi all’università del Sussex e infine aveva lavorato per un’industria privata facendo ricerca a Oxford.
Poi la “svolta” controcorrente, con la scelta di trasferirsi a Istanbul, con la borsa sovvenzionata dal governo turco: «Diciamo che sentivo una grandissima attrazione per questa città, dove ero venuto alcuni anni prima per fare delle lezioni in un altro ateneo. Già allora mi aveva affascinato tantissimo: è una città ricca di storia, cultura, di tanti colori e profumi. Mi ha attratto questo e anche la diversità, perché volevo esplorare non solo la parte fredda della scienza, ma metterci insieme anche la cultura e l’amore per il mondo delle religioni. Tra l’altro, questa malattia genetica che proverò a dare un contributo a curare, ha un’incidenza molto alta nei Paesi del Medio Oriente e anche questo per me è stato un criterio di valutazione, così come l’alto livello scientifico del gruppo di ricerca che mi ospita. Ci sono delle eccellenze anche alla Istanbul Technical University. Dall’1 aprile, con l’avvio del finanziamento europeo, divento per due anni un Marie Curie fellow, cioè sono un ricercatore della Commissione europea che lavora nell’università di Istanbul».
Orgoglioso di essere figlio dell’università di Catania perché «gli studi etnei sono stati validissimi: sia in Inghilterra che in Turchia le lauree conseguite a Catania, e in generale in Italia, sono fortemente valorizzate e rispettate, visto che il livello di formazione nell’università italiana è veramente eccellente. Almeno lo era ai miei tempi, ora non so perché è da parecchi anni che sono all’estero».
Ma allora perché l’Italia non riesce ad attrarre cervelli, anzi tantissimi fuggono?
«Questa è una bella domanda. Secondo me ci sono tanti fattori: il primo è il nepotismo che spadroneggia nelle università italiane che, a differenze di quelle anglosassoni, non privilegiano la meritocrazia. Il secondo fattore, a mio giudizio, è un desiderio legittimo di internazionalizzazione: sappiamo bene che, soprattutto nelle materie scientifiche, l’esperienza all’estero è fondamentale. Secondo me è giusto che i cervelli vadano all’estero, la cosa importante è però trovare dei modi perché poi ritornino».
Un rientro anelato anche da Antonino Puglisi: «Questo finanziamento della Commissione europea rende adesso il mio curriculum veramente competitivo e io spero, alla fine di questi due anni, di fare un salto nella ricerca, di essere più indipendente e magari di provare anche a tornare in Italia». Anche se Antonino Puglisi definisce «bellissimo vivere in Turchia: dal punto di vista culturale è un Paese veramente affascinante, ho ritrovato tanto della mia sicilianità qui, soprattutto dopo diversi anni trascorsi in Gran Bretagna, perché questa è una cultura centrata tanto sulla famiglia, sui valori della persona, anche della tavola. Poi c’è un clima bellissimo, un mare splendido, i sapori e gli odori sono molto simili a quelli della nostra amata Sicilia». E c’è anche una grande disponibilità verso gli stranieri: «Non ce ne sono tantissimi, però i turchi hanno un grande rispetto per gli stranieri, ma soprattutto direi per gli italiani. C’è un grande amore per gli italiani, perché loro riconoscono in noi un popolo molto affine: in fondo, siamo entrambe culture mediterranee. Mi sono trovato benissimo, molto accolto e sto anche imparando il turco – sono a un livello intermedio – cosa che i turchi apprezzano tantissimo anche se faccio tanti errori quando provo a parlare nella loro lingua con loro». Ed è proprio la lingua la difficoltà maggiore incontrata da Antonino Puglisi in Turchia, anche se poi rileva che «Istanbul non è la Turchia, Istanbul è una grande città cosmopolita dove le diversità sono molto più armonizzate di quanto non lo siano nel resto del Paese. Il fatto di essere cristiano, di essere europeo non mi ha creato finora nessuna difficoltà, nessun problema».
Restano non rimpianti, ma la nostalgia della Sicilia: «La prima cosa che mi viene in mente sono i cannoli. Ovviamente, mi mancano la mia famiglia, i miei cari, gli affetti, i sapori e i colori che sono tipici nostri e, per quanto ce ne siano di simili qui, la Sicilia è unica». E anche se dopo l’Inghilterra non ha tentato di tornare in Italia «per cui sarebbe ingiusto dire che ho trovato qui una possibilità che non ho trovato in Italia, posso però dire che la Turchia mi ha aperto le porte, mi ha dato la possibilità di esprimermi dal punto di vista scientifico, per cui le sono molto grato».
Un’attenzione all’essere umano che ha incentivato Antonino Puglisi a fare una scelta controcorrente, e che ritorna anche quando gli si chiede quale sia il suo obiettivo, il suo sogno: «Ne ho tanti: intanto di fare sempre più un lavoro che risponda ai bisogni veri della gente. Di non fare, quindi, una scienza che accumuli solo polvere sulle mie pubblicazioni scientifiche, ma qualcosa che aiuti la gente vera, normale, della strada. E poi voglio potere dare un contributo anche al dialogo: io penso che Istanbul abbia una vocazione naturale al dialogo, alla comunione tra Oriente e Occidente, tra l’Islam e il Cristianesimo. Questo lo sento anche come vocazione personale, al di là della scienza».
E ai giovani consiglia «di rischiare, di non avere paura di buttarsi e soprattutto di imparare l’inglese: quello è importantissimo, perché alle volte abbiamo tantissimi sogni però, soprattutto in campo scientifico, bisogna investire sulla lingua inglese che è quel valore aggiunto che potrà fare la differenza e aprire tantissime porte nel futuro». E poi, forte della sua esperienza che lo ha arricchito professionalmente e umanamente, invita a «non avere paura di andare controcorrente o di quello che la gente può pensare di te, ma credere nei tuoi sogni, ovviamente sogni su cui riflettere, meditare, farsi aiutare anche da amici per discernere e valutare. Ma una volta che hai capito quale è il tuo sogno, il tuo desiderio più profondo, di farlo, di realizzarlo». Anche andando, appunto, a fare esperienze in Paesi non particolarmente “gettonati”.
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