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Voto di scambio, quando l’infedeltà dei trasformisti è iscritta nel registro degli indagati

Di Mario Barresi |

Catania – E se ci fosse, nella sempre ribollente palude degli scandali siciliani, un nesso politico-antropologico fra il trasformismo e la corruzione elettorale, un legame fra il tasso di spudoratezza dei cambi di casacca e la probabilità di finire nei guai con la giustizia? Magari è soltanto una suggestione. Ma, così come decine di altre volte, anche dalle carte dell’inchiesta di Termini Imerese (96 indagati, soprattutto per voto di scambio) emergono esempi convincenti.

E non stiamo parlando, al netto della presunzione di un’innocenza sbandierata fino a ieri, dei proto-leghisti (intanto scalzati dal neo-salvinismo che avanza) Angelo Attaguile e Alessandro Pagano. Il primo cresciuto nello stesso asilo democristiano di Rafffaele Lombardo a Grammichele, prima di seguirlo nella crociata automista abbandonata per arruolarsi nell’esercito padano, quando era un plotoncino e non la gioiosa macchina da guerra di oggi; il secondo forzista della primissima ora e poi convertito – nel posto giusto al momento giusto – all’alfanesimo di scorta de Pd, ma fra i primi a rinnegare diabolicamente Angelino per aderire a Noi con Salvini, diventato leghista siculo molto tempo prima dei Matteo-boys dell’ultim’ora. Chapeau. A entrambi.

Ma, nell’inchiesta di Termini, sono altri due i testimonial lombrosiani dell’infedeltà iscritta nel registro degli indagati. Il primo è Giuseppe Ferrarello, ex sindaco di Gangi (ora vice di Francesco Paolo Migliazzo, anch’esso indagato), recordman di preferenze alle Regionali (9.222 voti), ma nella lista “sbagliata”: quell’Arcipelago di Micari già polverizzatosi ancor prima di competere. «Chi mi conosce bene sa che sono sempre stato vicino all’Udc», disse per giustificare la photo opportunity, all’indomani delle Regionali, accando a Giorgia Meloni. «Vorrei candidarmi alla Camera, mi cercano tutti», aggiunse il ras delle Madonie, annunciando un ritorno all’ovile del centrodestra accelerato dall’esclusione delle liste del Pd nel ratto dei faraoniani. E poi c’è un manifesto ancor più attuale del trasversalismo sotto inchiesta. Filippo Tripoli, candidato-pupillo di Totò Cuffaro (entrambi indagati per promesse, poi mantenute, di assunzioni in cambio di voti). Il giovane architetto oggi si ripropone come aspirante sindaco di Bagheria con il sostegno di gran parte del Pd, con Mdp che chiede ora – con il coordinatore Pippo Zappulla – «una scelta di chiarezza» ai “cugini” dem ora zingarettizzati. Lui, il candidato indagato, si difende («mai promesso posti di lavoro in cambio di voti») e attacca i grillini sul terreno della legalità: una «meschina strumentalizzazione» gli attacchi del M5S, che ha appoggiato Patrizio Cinque, «sindaco non solo indagato ma addirittura rinviato a giudizio».

Ferrarello e Tripoli rondini che non fanno primavera? Il punto, fuori dalla provazione, è un altro. Come affrontare la questione morale dell’Ars e più in generale della politica siciliana? I grillini indicano le vie brevi, quelle seguite nei loro inciampi giudiziari: «Ciascuno dei politici coinvolti nell’inchiesta, faccia un passo indietro».

Claudio Fava, invece, non imbocca scorciatoie. E accetta di scendere sul terreno della tesi di partenza: i voltagabbana sono più “propensi” a diventare inquisiti? «Sì, magari c’è un nesso. Ma, a pensarci bene, indossano tutti da sempre la stessa casacca: quella del potere. Tanto al governo quanto all’opposizione, senza alcuna differenza nella gestione dei processi politici». Per Fava «una profonda cultura comune, che garantisce di stare nei posti dove si condizionano scelte e assetti». Quindi – paradossalmente, ma fino a un certo punto – c’è il riscontro di «una fedeltà a una bandiera, sotto la quale cambiano i pulviscoli di appartenenza, ma c’è una tolemaica stabilità di un sistema di potere all’insegna del privilegio e dell’impunità». Il che, allo stesso tempo, conferma e smentisce l’approccio particolare. Per arrivare a un quadro più sistemico: «Gli ennesimi casi mi colgono con indignazione, ma senza stupore. Non è una somma di episodi – sostiene il presidente della commissione Antimafia all’Ars – ma il dato consolidato di una vocazione di un pezzo della politica siciliana». Che poi, sovrapposto ai protagonisti del “sistema” per eccellenza, rende la spiegazione ancor più chiara. «Martedì ci sarà il voto sulla relazione Montante. Da mercoledì la commissione sarà al lavoro sul rapporto fra mafia e politica aggiornato a oggi», dice Fava.

Il deputato dei Cento Passi non si appassiona al tema degli “impresentabili” nella coniugazione grillina. E ribatte sull’asse forma-sostanza: «Si può essere presentabili ai sensi di legge Severino e codici di autoregolamentazione, ma nel frattempo degli straordinari figli di puttana». Il rispetto delle norme è scontato, sono i «comportamenti penalmente non rilevanti, come i tanti riscontrati nel lavoro su Montante» la vera sfida. E così la questione morale, anche alla Regione, assume connotati non scontati. Fava non addita assessori o deputati indagati, ma chiede a Nello Musumeci «un comportamento che crei scandalo». Ovvero «una discontinuità», ma non tanto nei confronti del «pedigree criminale, perché quella è scontata, quanto con «la qualità dei comportamenti». Per intenderci: «Non accettare assessori imposti da Lombardo, anche qualora fossero specchiati, sarebbe uno “scandalo”. Anche a costo di rompere una maggioranza».

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