Cronaca
Roberta, l’omicidio e quell’occhio nero: le ombre sul fidanzato che si dice innocente
CACCAMO – Scorgere il mare, da queste montagne di rocce aspre e di rigogliosi ulivi, è quasi un’utopia. Anche se il vento, se lo tieni dietro le spalle, nel pomeriggio di una domenica grigia, sembra volerti far volare fino a laggiù, verso le ciminiere dell’ex SicilFiat. Poi devi fermarti, aggrapparti a qualcosa. Per capire cos’è successo davvero. A Caccamo. Qui, in contrada Monte San Calogero, a poco più di un chilometro dal Belvedere – in luoghi né troppo vicini, né troppo lontani al centro; alla giusta distanza per organizzare una serata fra amici, violando le regola della zona rossa, in un posto appartato il giusto per celare un delitto – è stato trovato il cadavere, in parte bruciato, di Roberta Siragusa. Ed è il procuratore di Termini Imerese, Ambrogio Cartosio, a esprimere un «dolore immenso» per la morte della diciassettenne «verosimilmente vittima di un omicidio».
Cartosio guida le indagini del sostituto Giacomo Barbara, affidate ai carabinieri. Si parte da un dato di fatto preciso. E pesante: a far ritrovare il corpo della ragazza, ieri mattina, è stato il fidanzato, Pietro Morreale, di 19 anni. Alle 9,30 il giovane si presenta alla caserma, in compagnia del padre, operaio all’Amap di Palermo. «La mia fidanzata è morta, vi porto nel posto dove si trova». In fondo a una scarpata in contrada Rotondo. Il cadavere di Roberta viene subito recuperato dai vigili del fuoco. Domani l’autopsia. I genitori (padre disoccupato, madre nella ditta di pulizie dell’ospedale di Termini) la cercano dall’alba: non vedendola rincasare, alle sei e mezza denunciano la scomparsa ai carabinieri.
Pietro, in mattinata, abbozza una spiegazione. «Confusa, contraddittoria», per chi l’ascolta senza i crismi dell’ufficialità. In una prima versione l’ipotesi di un litigio, forse per gelosia. Ma poi si ferma. Tace, si chiude in se stesso. «Il mio assistito non ha confessato, né ai carabinieri né al pm», taglia corto l’avvocato Giuseppe Di Cesare. Smentendo che ci sia l’interrogatorio da indiziato.
E allora si torna alla scena prima del delitto. Alla villetta di campagna di un ragazzo della comitiva, alla festicciola clandestina. Immortalata nel video di una “storia” su Instagram, proprio dalla giovane vittima. Pochi secondi, un mazzo di carte siciliane, una bottiglia di Vodka alla fragola e cinque bicchieri di plastica. Una trasgressione di ragazzi di paese. Un indizio.
Ché poi, anche per gli investigatori più aggiornati, è difficile – tanto quanto è utile, quasi indispensabile – cercare, come in una caccia al tesoro senza mappa, gli indizi social spalmati da questi ragazzi. Dai loro profili, scatole nere delle loro vite, si prova a decriptare alcuni messaggi in codice. Ci si “defollowa”, anche da fidanzatini, dopo una litigata, magari per un “cuore” di troppo a un calciatore figo o a una procace influencer. E ci si torna a “seguire”, magari restando assieme, dopo aver fatto pace. Così, nelle ultime settimane, era stato – profili alla mano – per Pietro e Roberta. Che, nell’ultimo selfie per la foto del profilo, si mostra nella sua innocente leggiadria. «Amore mio bedda!», risponde il fidanzato, alle 14,14 di sabato, con la faccina degli occhi a cuoricini. Carte d’identità, con segni particolari, i due profili social, ora uno tomba virtuale dove posare un fiore e l’altro tribunale in cui vomitare atroci condanne. Lui, per cui «non ci sono strade facili ma solo destinazioni che valgano la fatica del cammino»; lei si descrive con una frase sofferta: «E ogni cosa sembra grande, tu lasciali parlare, e ricorda è dal dolore che si può ricominciare».
E poi gli altri sintomi, in questo codice imperscrutabile per chi ha più di trent’anni, di quando c’è qualcosa che non va. «Perdi solo se ti arrendi», scrive Roberta due settimane fa. Un malessere, forse, che trova l’apice tre giorni prima della morte. Con la colonna sonora di “Demonio” del rapper Capo Plaza e una frase scritta in bianco: «Sarò senza cuore, sì. Come un demonio. Ma, ti giuro, non ti dirò una bugia».
“Storie” che scorrono su Instagram, microscopici tasselli di una storia di morte all’ombra del castello di Caccamo, custode di leggende su fantasmi e inganni. Segreti, come quelli che carabinieri e magistrati – vivaddio, ci sono anche i metodi pre-Zuckerberg d’indagine – provano a carpire dai testimoni dell’ultima cena nella villetta. Aiutati anche dalla ricostruzione di Giuseppe Canzone, l’avvocato dei Siragusa. Che esprime la misura, «tanta», della «disperazione» e di quanto la famiglia sia «scioccata ed incredula». I genitori e il fratello di Roberta, che «chiedono giustizia e si affidano agli inquirenti, perché ci sia verità, per un gesto così crudele e atroce». Per loro, che ringraziano, i carabinieri hanno disposto «un servizio di assistenza psicologica».
Ma l’avvocato ricostruisce alcune scene del sabato sera. «I due ragazzi sono usciti alle 22», ma «a una certa ora sono andati via perché Roberta aveva detto ai genitori che sarebbe rientrata all’una di notte». Non vedendola rincasare hanno iniziato a cercarla. Prima nella villetta, poi a casa degli amici. Che «hanno confermato che erano andati via» assieme.
E poi cos’è successo? A questo, nell’interrogatorio, dovrà rispondere Pietro. Interrogatorio che è andato avanti per tutta la notte e si è concluso solo all’alba. Come detto, l’indiziato avrebbe continuato a negare di essere il responsabile della morte della fidanzata.
Magari, nel frattempo, i carabinieri avranno trovato un elemento decisivo per una pista seguita: sul corpo di Roberta ci sono dei segni compatibili con bruciature da benzina, si guardano (anche) i video delle telecamere di sorveglianza dei distributori del paese. Oppure, se davvero fosse lui l’assassino, a far crollare il ragazzo potrebbe essere la testimonianza di un’amica della vittima. Che, sentita in caserma, avrebbe rivelato un episodio risalente alla scorsa estate: una scenata di gelosia di lui, l’occhio nero di lei.
E qui torniamo alla casella di partenza. Forse la chiave del delitto. Che magari ha la stessa radice, atavica, di migliaia di femminicidi. Il senso di possesso, non passione né amore. Ma l’impotenza del machismo più becero e distorto. È così, è sempre stato così. Prima che, fra le “storie” di Instagram, ci raccontassero quest’ultima tragedia del profilo accanto. Così maledettamente social. Ma col tanfo del déjà-vu.
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