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La mafia dei pascoli e la Totò-truffa all’Ue: «Contributi anche per i terreni del Muos»

Di Mario Barresi |

MESSINA – Katia Crascì ha quarant’anni. Di Tortorici, residente a Rocca, frazione di Capri Leone. Sulla carta è una brillante imprenditrice agricola. Nelle carte, quelle dell’inchiesta della Dda di Messina, è un’affiliata all’associazione mafiosa assieme al fior fiore dei clan, con il cuore abbarbicato sui Nebrodi e le mani sul portafogli di Bruxelles.

Crascì, coinvolta con altri familiari (fra cui il marito, la madre, il fratello, alcuni cognati, il suocero, cugini assortiti) è stata arrestata; sequestrate numerose aziende agricole.

Che l’indagata abbia qualcosina da nascondere gli investigatori se ne accorgono già nel corso delle lunghe conversazioni intercettate. Ed è proprio l’imprenditrice Crascì, per il gip Salvatore Mastroeni, a dimostrare – semmai ce ne fosse bisogno – «chiaramente l’esistenza dell’organizzazione indagata nonché la sua consapevole partecipazione all’interno della stessa». In un colloquio la donna chiede al marito Gaetano Faranda: «Ma i tuoi fratelli che hanno fatto? Non lo sai?». Quest’ultimo dapprima risponde «Boh… che minchia ne so, boh!» e, annota il giudice, fa capire alla moglie che gli altri indagati, come ampiamente emerso nel corso dell’indagine, si sono avvalsi della collaborazione di diversi prestanome» per le false richieste di contributi Ue. «Ma… loro… inc… non ne avranno fatte più … si… che li rifacevano? dopo l’anno scorso, facevano queste cose?… che sono menomati? Se avevano qualche altro li facevano fare a qualche altro, ma no che facevano queste cose… che sono menomati? Minchia… non sono menomati…», dice lei imbufalita.

Il cerchio si stringe. «Stamattina è passato l’inferno… mi hai capito no?… l’inferno», l’avverte la madre, Rosaria Coci, al telefono. Chiedendo istruzioni per l’uso: «…quelle cose che ho dentro che devo fare?… hai capito?… non so io cosa me ne devo fare…». E, quando i militari delle fiamme gialle, il 27 maggio 2016, bussano alla porta, è il panico. «Tano te ne devi salire a duecento a casa…», dice al marito. Intanto, dà ordini alla madre su come nascondere i corpi del reato: «Mamma…! Dove ci sono le carpette… accatastate nell’anta grande… prendili e te li metti fra il seno, dove ci sono i vestiti di Antonio (…) là dove ci sono le carpette… nell’armadio nell’anta grande, dentro una busta… minchia!!!… Mamma!». Poi ancora al marito: «Che cosa gli dico?». Lui ha un’idea: «Devi dire: non sono residente qua a Rocca, sono residente…». Lei, al netto del lessico politically uncorrect, non sembra entusiasta del suggerimento: «Ma tu sei down!!!! Che cazzo gli devo dire?». Seguono altre operazioni: prelievi di contanti, “polverizzazione” del malloppo in più conti correnti.

Ma ormai la frittata è fatta. I finanzieri non hanno bisogno di «quelle cose» nascoste in casa per incastrare l’allegra famigliola. E scoprono, fra le altre, una truffa degna di un film di Totò in ambientazione siculo-yankee. Fra le aziende intestate all’imprenditrice tortoriciana, c’è la “Allevamento Crascì di Katia Crascì & c. Sas”: mille euro di capitale sociale al 50% col consorte per «allevamento di bovini e bufale da latte, produzione di latte» L’impresa, aperta nel 2008, è inesistente, perché «di fatto, non ha mai esercitato attività agricola/di allevamento»: niente scritture contabili, né dipendenti, né acquisti di prodotti. Lo schema criminale è lo stesso. Come altre decine di ditte-fantasma.

Eppure stavolta si arriva all’inverosimile: fra le 42 particelle (su 42) contestate, ce ne sono a Caronia, Caltagirone, Licodia Eubea. Alcune delle terre nel Calatino risultano affittate da tre proprietari diversi, ma con un elemento in comune: sono tutti morti. Uno, nato nel 1909, è passato a miglior vita quand’era ottantenne, 22 anni prima della stipula del contratto; gli altri due (classi di ferro 1915 e 1938) sono deceduti appena otto e dieci anni prima della “firma” sui contratti.

Il colmo arriva su alcune particelle in territorio di Niscemi. Nel comodato (falso) c’è scritto che i terreni sono «di proprietà del Demanio Pubblico dello Stato Ramo Difesa Aeronautica», scrivono i pm messinesi, e poi dati in comodato d’uso a tale Luigi Immordino che infine li concede all’azienda di Crascì. E, quando la guardia di finanza scrive alla Regione per capirci qualcosa, l’ufficio nisseno del dipartimento scrive, senza fare una grinza, che alcune, ricadenti nella Riserva naturale orientata “La Sughereta” di Nicemi, «non sono state oggetto di concessione pascolo dal 2009 al 2013 alla sig.ra Crascì Katia». E altre «non sono gestite da questo scrivente ufficio e sono afferenti, per quanto noto, al Demanio Militare dello Stato, Ministero della Difesa, gestione Nato/U.S. Navy».

Cioè: sono terreni del Muos, il contestato sistema di comunicazioni satellitari degli Usa. Un “Grande fratello” che controlla il mondo intero (compreso il traffico di droni e missili vari) proprio da Niscemi. Ma agli “amerikani”, stavolta, è sfuggito che la banda dei Nebrodi faceva soldi (europei) dentro casa loro. Sotto gli occhi globalizzati della Nato.

Twitter: @MarioBarresi

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