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Toghe e politici, la trama siciliana nell’«almanacco» della corruzione

Di Mario Barresi |

CATANIA – C’è molta Sicilia nell’ultima maxi-inchiesta sulla corruzione dei giudici del Consiglio di Stato (e non solo), che fa tremare qualche decina di colletti bianchi a livello nazionale.

Di siciliano, innanzitutto, c’è la matrice: Piero Amara, l’avvocato-facilitatore che muoveva i fili del cosiddetto “sistema Siracusa”. Del quale lo stesso Amara, assieme al sodale Giuseppe Calafiore, è ora un super-pentito con rivelazioni, riscontrate dai pm di Roma e di Messina, che hanno già inguaiato parecchi pezzi grossi.

E lo schema, anche stavolta, sembra lo stesso: verbali-fiume dei due professionisti, riscontri investigativi, file-sharing fra Procure. Amara, per la verità, è fra i 31 per i quali il procuratore aggiunto di Roma, Paolo Ielo, lo scorso 21 dicembre ha chiesto la proroga delle indagini, notificata agli interessati qualche giorno fa dal gip Daniela Caramico D’Auria. Le ipotesi di reato sono bancarotta fraudolenta e rivelazione di segreto d’ufficio, le stesse contestate a Calafiore. La moglie di Amara (Sebastiana Bona) e il fratello di Calafiore (Diego) sono chiamati in causa per la sola bancarotta. Così come altre vecchie conoscenze del “sistema Siracusa”: l’imprenditore Alessandro Ferraro, Davide Venezia (condannato a 4 anni e 2 mesi per associazione a delinquere e corruzione dell’ex pm Giancarlo Longo), Marco Salonia (già indagato a Roma, ritenuto un prestanome dei due avvocati) e Sebastiano Miano (a processo nel filone messinese).

Si tratta di «un provvedimento “omnibus”», spiegano fonti giudiziarie, «in cui rientra anche il filone della corruzione in atti giudiziari». Un intreccio di inchieste, che ruotano tutte attorno al “pianeta Amara”. E che toccano i piani nobilissimi della giustizia amministrativa italiana. Nel registro degli indagati, per questa vicenda, è finito anche il presidente di Sezione del Consiglio di Stato, Sergio Santoro, in lizza per il ruolo di presidente aggiunto, ma anche il collega Nicola Russo (già coinvolto in una vicenda giudiziaria con l’imprenditore Stefano Ricucci), oltre che l’ex dirigente Antonio Serrao, oggi procuratore aggiunto Figc. Tutti indagati, a vario titolo, per corruzione in atti giudiziari.

Nel grande verminaio sull’asse Sicilia-Roma spuntano altri due giudici già citati (e all’epoca non indagati, ma adesso sì) nelle carte della prima tranche sulla rete di corruzione. Uno – nella chat segreta in cui Amara si faceva chiare “Peter Pan” e Calafiore era “Escobar” – incuriosì il Gico della guardia di finanza. E non solo per il nickname, “minkia69”. Si tratta di Luigi Caruso, ex giudice della Corte dei conti, oggi in pensione. Caruso, catanese d’origine, condannato nel 2011 a tre anni per corruzione e poi prosciolto in appello per prescrizione del reato, nell’informativa è definito in rapporti di «assidua frequentazione» con Amara. E ora è indagato per associazione a delinquere e corruzione in atti giudiziari. L’ex magistrato, come si legge nelle carte del sistema Siracusa, viene avvertito dall’avvocato siracusano di essere sotto intercettazione. Stessa soffiata arriva a Raffaele De Lipsis (ex presidente di Consiglio di Stato e Cga , già indagato nel filone romano per concorso in corruzione, coinvolto anche nella “traghettopoli” di Morace). Ma lui è scettico: «Vabbe’, tanto bisogna vedere quanto sia vero», dice al giudice Caruso. Che è tranchant: «Lo ha detto Piero (Amara, ndr)…».

Nella proroga delle indagini chiesta dai pm romani c’è un’altra vicenda che coinvolge toghe, ma anche politici siciliani. E si tratta di un’inchiesta sul caso “kafkiano” della ripetizione del voto per Regionali 2012, con gli elettori di nove sezioni di Pachino e Rosolini richiamati alle urne due anni dopo, nell’ottobre 2014. La vicenda non è nuova. In origine il fascicolo – trasmesso a fine 2016 dai pm di Catania ai colleghi di Palermo – si chiamava “Gennuso Giuseppe + 14”. Quindici indagati fra i quali, appunto, il deputato regionale Pippo Gennuso (arrestato lo scorso aprile per voto di scambio politico-mafioso, poi scarcerato dal Riesame che fece cadere l’aggravante mafiosa), assieme ai figli Luigi e Riccardo, ma anche gli onnipresenti Amara e Calafiore. Nella lista pure l’ex governatore Raffaele Lombardo e l’ex ministro Saverio Romano. Il pm di Palermo, Piero Padova, aveva chiesto l’archiviazione per tutti, ma il 30 maggio 2017 il gip Roberto Riggio dispose un supplemento d’indagine, ordinando l’iscrizione nel registro degli indagati dell’ex presidente del Cga, Raffaele De Lipsis, ritenuto «il terminale della attività posta da alcuni degli indagati». Archiviati cinque indagati fra i quali il vicepresidente dell’Ars, il lombardiano Roberto Di Mauro, e l’ex senatore Giovanni Mauro.

La novità, adesso, è che il fascicolo è finito alla Procura di Roma che continua a indagare, si presume sulla base di nuovi elementi, fra cui potrebbero esserci le rivelazioni di Amara. È l’inchiesta della celebre intercettazione in cui l’ex deputato regionale Enzo Vinciullo (totalmente estraneo ai fatti) sbotto: «Gli hanno fottuto i soldi!… i giudici… mi ha detto che questo scherzetto gli è costato 200mila euro». Vinciullo, sentito a Palermo, avrebbe detto di non ricordare da chi avesse appreso della presunta mazzetta. Ma il gip parla di Gennuso (non eletto nel 2012, poi conquista il seggio all’Ars grazie al voto-replay) e della sua attività «diretta a influenzare l’esito del giudizio» al Cga. Presieduto proprio da De Lipsis, nell’insolita veste di relatore-estensore della sentenza. Tracciati «i continui rapporti» dell’allora aspirante deputato con Amara e Calafiore, che «ufficialmente non hanno alcun incarico ma che si occupano attivamente della vicenda». Verifiche, su richiesta del gip, su un bonifico partito il 18 novembre 2013 dal conto corrente di Gennuso della Banca agricola popolare di Rosolini. E approfondito il contesto di alcune intercettazioni in cui il politico e i figli parlano di «cassette di papaya» da trasportare e di «sacchetti di plastica» da riempire con un non meglio identificato contenuto. Proprio alla vigilia di un viaggio a Roma. I Gennuso – padre e figli, Luigi e Riccardo – sono ora indagati a Roma: corruzione in atti giudiziari e rivelazione di segreto d’ufficio.

Auspica che il pm «voglia reiterare la richiesta di archiviazione in tempi rapidi», l’ex ministro Romano, indagato per rivelazione di segreto d’ufficio, secondo lui legata solo a «una telefonata nel corso della quale mi congratulavo con l’interessato per la sentenza a lui favorevole su un contenzioso elettorale, specificando di avere appreso la notizia dall’avvocato Amara». La chiamata è del 4 febbraio 2014: «Ho notizie da Piero Amara… Quindi so che le cose vanno bene!…», dice l’ex ministro a Gennuso. Che, non essendo ancora stata depositata la tanto sentenza del Cga che lo riguardava, pur essendo stato informato dell’esito positivo, al telefono con l’ex ministro finge di non saperne nulla. «Ma già l’hanno pubblicata? Io ancora non lo so…».

L’ex governatore Lombardo è indagato per corruzione in atti giudiziari e rivelazione di segreto d’ufficio. Viene ritenuto parte di «una sorta di cordata» a sostegno di Gennuso. Tracciate decine di telefonate fra i due, ma anche numerosi incontri a Roma e a Catania per discutere del ricorso al Cga. «Sei sempre in cima ai miei pensieri…», è una delle rassicurazioni dell’ex leader dell’Mpa. Nelle indagini di Roma anche due uomini legati a Gennuso: Enzo Medica (ex assessore a Noto) e Walter Pennavaria, ex amministratore del Consorzio “Granelli”.

Giusto per non farsi mancare nulla, la lista dei 31 comprende anche uno 007. Ne parlammo, in occasione del suo arresto: Loreto Francesco Sarcina, 55 anni, ex carabiniere in servizio fino al luglio scorso all’Aisi. È lui, per ammissione di Amara e Calafiore, una delle talpe del sistema: lo pagarono (30mila euro) per rivelare dettagli delle indagini a loro carico. Arrestato a Roma dopo una lunga caccia anche dentro un convento dove il “Signor Franco”, così si faceva chiamare, consegnò una chiavetta Usb ai due avvocati in cambio del denaro, accolto da una suora dominicana di origini siciliane. Nella perquisizione a casa di Sarcina, i finanzieri trovarono un passaporto falso intestato a Rodrigo Martinez. Ma in quel documento c’era soltanto una cosa vera: la foto. Che immortala il volto di Aurelio Voarino (ora indagato). Chi è costui? Il capo della sicurezza privata di Ezio Bigotti (pure lui inquisito). Chi è Bigotti? Un’altra vecchissima conoscenza della Sicilia: il cliente di Amara è ritenuto il «beneficiario di utilità promesse» al magistrato Virgilio. Ma l’imprenditore Bigotti è anche “socio” della Regione con il suo 25% della partecipata Sicilia Partrimonio Immobiliare.

Può bastare? Sì, per adesso.

Twitter: @MarioBarresi

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