Sanzioni
Alla caccia degli oligarchi non sfugge Aleksei Mordashov: chi è l’uomo più ricco della Russia
L'invasione dell’Ucraina ordinata da Vladimir Putin minaccia ormai di fare terra bruciata attorno a loro, quale che sia l'influenza sul leader del Cremlino
La caccia in Occidente agli oligarchi del business russo, e alle fortune prosperate o conservate all’ombra del putinismo, diventa senza quartiere. L'invasione dell’Ucraina ordinata da Vladimir Putin minaccia ormai di fare terra bruciata attorno a loro, quale che sia l'influenza sul leader del Cremlino; e non risparmia neppure Aleksei Mordashov, 56 anni, accreditato da Forbes nel 2021 come l'uomo più ricco di Russia – con un patrimonio stimato a oltre 29 miliardi di dollari, il quadruplo di Silvio Berlusconi e 13 volte John Elkann per avere qualche termine di paragone – preso di mira da una nuova raffica di sanzioni firmate Ue.
L’obiettivo di Bruxelles, come di Washington o di Londra, appare evidente al di là della sovrapposizione non ancora piena delle differenti liste di proscrizione: non solo e non tanto mettere sotto tiro proprietà da mille una notte, yacht, beni vari e conti bancari custoditi all’estero dalle elite moscovite, dopo anni in cui tutto questo flusso di denaro era stato accolto senza troppi filtri; bensì soprattutto usare le sanzioni come una sorta di leva politica. Una leva che si vorrebbe in grado di contribuire a destabilizzare presto o tardi il sistema di potere che da 20 anni ruota attorno a Vladimir Vladimirovic. Se non lo zar in persona e il suo cerchio magico più stretto.
In questo senso il nome di Mordashov ha un peso simbolico. Un avvertimento: la conferma che nessuno, per florido che sia, è più al sicuro. In ballo nel suo caso ci sono interessi tentacolari, che dalla Russia si allungano all’Europa continentale e al Regno Unito. Nato in una famiglia operaia della regione di Vologda ed emerso dal nulla come altri nel far west delle privatizzazioni degli anni '90 fino a farsi padrone dei ciclopici impianti siderurgici targati ora Severstal, nel Grande Nord, Aleksei Alekstandrovic è oggi un modello di businessman globalizzato. Uno dei re dell’acciaio a livello planetario, ma non solo. E’ di casa nella City; ha rilevato in Germania in piena pandemia quasi il 35% del colosso turistico internazionale Tui divenendone il maggior azionista; possiede giacimenti d’oro; fa affari in India e Cina; viaggia su un jet privato Bombardier Global 6000 tracciato di recente in volo fra Londra e Pechino e poi fra le Seychelles e Mosca. E naturalmente ha il suo bel panfilo da favola, il Nord, 144 metri di lunghezza, mandato secondo il Guardian a svernare fuori tiro nell’Oceano Indiano. In Italia ha una villa in Sardegna e una quindicina di anni orsono fu protagonista dell’acquisizione delle storiche acciaierie bresciane del Gruppo Lucchini, alla fine liquidato.
L’Unione Europea lo ha inserito nella sua black list per le quote che detiene in seno a Rossiya Bank, additata come "la banca personale" di molti papaveri della nomenklatura che avrebbero beneficiato dell’annessione della Crimea. Lui si difende affermando di non avere "assolutamente nulla a che fare" con quella che definisce «l'attuale tensione geopolitica», giurando di non volere la guerra ("una tragedia fra due popoli fratelli") e deplorando le sofferenze e la morte di tanti "ucraini e russi». Ma oggi ha dovuto dimettersi dal consiglio di amministrazione di Tui Ag, come annunciato dai vertici societari del mega tour operator tedesco. E le sue quote, con un valore di mercato di poco inferiore agli 1,2 miliardi di euro, sono state congelate. A Londra, per il momento, non è nel novero dei sanzionati. Ma le conseguenze sembrano inevitabili. Tanto più che il governo Tory di Boris Johnson, già in prima fila sul fronte della linea dura della rappresaglia anti Mosca e degli aiuti militari a Kiev, si appresta ad ampliare ulteriormente le ritorsioni senza precedenti adottate per la propria parte: promettendo persino – in nome della «trasparenza» – la pubblicazione di un inedito elenco collettivo d’individui e aziende «associate» a qualsiasi titolo al «regime di Putin» nel Regno. Anche sotto la spinta di un’opposizione laburista che insiste a sfidarlo a intensificare la pressione proprio sui miliardari o gli ex notabili russi più radicati oltre Manica, come il magnate uzbeko-moscovita Aliser Usmanov, il banchiere benefattore della comunità ebraica Mikhail Fridman o l’ex vicepremier Igor Shuvalov. E come il patron del Chelsea, Roman Abramovich, in apparenza deciso ormai, volente o nolente, a mollare definitivamente l’isola e a vendere tutto ciò che ha accumulato qui: anche se non gli sarà facile incassare i 3,3 miliardi di sterline che, a dar retta ai tabloid, ha fissato come prezzo-base della sola squadra di calcio. COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA