Se i giovani “insegnano” ad altri giovani. La peer-to-peer education

Di Rosario Faraci* / 13 Luglio 2024

Alla pari. O meglio, tra pari. È la peer-to-peer education, un metodo didattico in cui i giovani “insegnano” ai coetanei, facilitando l’apprendimento attraverso il dialogo e la condivisione di conoscenze ed esperienze personali. In alcuni istituti scolastici e corsi universitari, sotto la guida attenta dei docenti, questo metodo è applicato con grande beneficio dei partecipanti. Quando infatti ad insegnare qualcosa è un coetaneo che, a sua volta, può apprendere qualcos’altro da un suo pari, aumenta l’autostima individuale, migliorano le competenze comunicative, l’apprendimento diventa più relazionale e diretto. Il metodo risulta più efficace dove collaborazione e supporto reciproco sono incentivati, trasformando il docente “senior” da trasmettitore di saperi a facilitatore di una conoscenza condivisa.
Il modello alla pari si sta diffondendo in vari campi, col rischio quasi di indebolire quello tradizionale mentor-mentee in cui il primo è una persona adulta con maggiore esperienza o conoscenza che guida e supporta il secondo, più giovane e meno esperto, focalizzandosi su crescita e sviluppo personale. Più verticale risulta il modello mentor-mentee; più orizzontale, perché fondato su reciproco apprendimento e condivisione, è invece il modello alla pari.

Le insidie nel metodo peer-to-peer

Non sono tutte rose e fiori, ovviamente. Anche il peer-to-peer ha i suoi limiti. Ad esempio, gli educatori alla pari possono rallentare o addirittura influenzare negativamente il gruppo, se non hanno sufficiente esperienza o millantano competenze non possedute. Inoltre, la variabilità nel livello di competenza fra coetanei può portare ad un apprendimento non uniforme dove alcune esperienze possono essere trasmesse in modo inaccurato o incompleto. Ancora, c’è una grande insidia, ovvero l’insorgere di conflitti tra pari che spesso porta a incomprensioni, divisioni e financo ad insanabili fratture. Infine, c’è una questione di sostenibilità del modello a lungo termine: mancando le risorse o non essendoci adeguato ricambio, il mentoring alla pari spesso esaurisce la propria spinta propulsiva.

Emergono le leadership individuali

Mi è capitato di facilitare il modello peer-to-peer in aula con gli universitari, limitatamente ad alcune attività didattiche. Funziona meglio alla triennale, dove ragazze e ragazzi di primo anno si sentono davvero alla pari; meno efficace è alla magistrale, dove emergono già alcune significative differenze di competenze e stili di leadership individuali che non sempre si vogliono condividere con altri coetanei.
L’applicazione del metodo didattico va incoraggiata ed integrata con altre metodiche a disposizione del docente, compreso il reverse mentoring quando è l’adulto ad imparare dal più giovane.
Ho visto applicato il peer-to-peer nel mondo delle start up, soprattutto a Catania. Nella nascita e nelle prime fasi di crescita dell’ecosistema imprenditoriale etneo, un ruolo molto importante è stato svolto proprio dal mentoring alla pari. Ad esempio, l’associazione universitaria Youth Hub Catania fino ad alcuni fa organizzava l’”appuntamento delle idee”, dove giovani con proposte, idee e perfino sogni imprenditoriali si confrontavano con altri coetanei che lo stesso percorso l’avevano già intrapreso prima e pertanto più “esperienti” potevano fornire consigli, suggerimenti e indicazioni agli altri.

Perché i giovani si fidano più dei coetanei “esperti”?

Questo mese di luglio è tempo di scelte per molti giovani che hanno conseguito la maturità liceale; per altri che, completata la triennale, si apprestano a scegliere la magistrale; per laureati quinquennali che stanno valutando come approcciare il mondo del lavoro.
Ebbene, nell’ambito di queste scelte su “cosa fare da grande”, spesso il peer-to-peer è più influente della relazione tradizionale che si stabilisce tra un adulto e un giovane.
Perché dunque i giovani di oggi si fidano più dei loro coetanei “esperti” che degli adulti?
Innanzitutto, tra pari ci sono comuni esperienze e interessi condivisi. Poi, con gli adulti c’è una fisiologica distanza generazionale, causata da marcate differenze in valori, preferenze e comportamenti. Ancora, ai rapidi cambiamenti nella società e nella tecnologia gli adulti fanno più fatica ad adeguarsi e quindi ciò riduce la fiducia in loro riposta come guide efficaci nell’era digitale e nell’uso dei social media. Infine, c’è una questione di empatia e di identificazione.
Spesso, i giovani non si sentono più ascoltati dai grandi; mentre coi loro coetanei l’esercizio di mettersi in sintonia risulta più naturale. Ascoltano, ma – a differenza degli adulti – non giudicano.

*Rosario Faraci insegna Principi di Management all’Università degli Studi di Catania. È giornalista pubblicista

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Pubblicato da:
Leandro Perrotta