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Scuola, «Io precaria ho detto di no ai ricatti»

Giulia Di Bella è una docente precaria che racconta al quotidiano La Sicilia le difficoltà e le umiliazioni vissute per trovare un regolare contratto di lavoro negli istituti scolastici paritari siciliani

Di Giulia Di Bella |

Ti contattano all’ora di pranzo, alle nove di sera, il sabato in tarda mattinata… Chiedono disponibilità immediata, ti danno del tu, ti offrono un contratto da supplente fino alla fine dell’anno. Poi all’improvviso abbassano il tono di voce e, tra un colpo di tosse e un giro di parole, ti chiedono se sei disposto a lavorare senza essere pagato. Sono i dirigenti scolastici di alcuni istituti paritari siciliani che, a settembre di ogni anno scolastico, iniziano il loro giro di telefonate tentando di assoldare giovani docenti. Tutti precari, laureati col massimo dei voti, disposti a qualunque sacrificio pur di maturare punteggio e scalare così le graduatorie nazionali. Che si tratti di un campus immerso nel verde o di una scuola fatiscente, la richiesta fatta al docente non cambia: svolgere le ore di lavoro previste dal contratto e, alla fine di ogni mese, firmare la propria busta paga. Busta paga che, ça va sans dire, è fasulla.

Il docente è tenuto infatti a restituire immediatamente alla scuola tutti soldi che gli spetterebbero da contratto (in contanti, chiede qualcuno). Da ottobre a giugno l’insegnante non guadagnerà un euro, non riceverà alcun rimborso spese, talvolta sarà persino costretto a pagarsi da solo i contributi. La mia avventura nel fantastico mondo degli istituti paritari inizia una sera di fine agosto. Avevamo organizzato una cena tra ex colleghi: tutti neolaureati in Filologia classica e tutti pronti ad entrare, entusiasti e spaesati, nel vortice del lavoro precario. Uno di loro, come me laureato con 110 e lode, integralista del greco e del latino, racconta di un colloquio avuto in una scuola superiore paritaria del messinese. «Ti assumono come docente per quattro ore settimanali, poi te ne fanno fare il triplo. A fine mese firmi una busta paga fasulla, perché il bonifico non te lo fanno. Nessun rimborso spese, e forse devo pagarmi i contributi da solo. Ma solo così possiamo fare punteggio». Nelle sue parole avverto l’angoscia di chi, dopo anni sui libri, si è appena reso conto che la parte più faticosa e umiliante della storia, per un laureato che vive al sud, deve ancora venire. Continua dicendo che l’unica possibilità per noi docenti precari è andare a insegnare al nord. Ma lui non lo farà, perché lì la vita è cara e lo stipendio non basterebbe a coprire le spese. «Accetto di lavorare senza essere pagato. Però, mi raccomando, non dite a nessuno che in queste scuole funziona così. Io sono felice se vengo assunto: anche se è tutto finto!». Quella sera torno a casa con un forte senso di prostrazione addosso: qualche settimana prima avevo iniziato anche io a inviare le “messe a disposizione” come docente di lettere, cioè le candidature per essere assunto come supplente, ma la rassegnazione del mio collega mi aveva angosciato. Decido che voglio capire come funziona davvero in questi istituti paritari. Cerco un modo per ottenere un colloquio con alcune di queste scuole. Ma non è semplice. «Loro devono potersi fidare di te», mi spiega ancora il mio collega, «vogliono assicurarsi che non li denuncerai». Insomma, per ottenere un lavoro senza essere pagato devi pure farti raccomandare, trovare qualcuno che metta una buona parola per te. Riesco a farmi “raccomandare” da un amico e mi presento nel primo istituto. «Chiedi di A. M.», mi dice lui. Così faccio. 

A. M. mi accoglie all’Istituto D. B. di Catania. Pancia prominente da bevitore di birra, mi saluta subito con un «ciao» confidenziale, anche se non ci siamo mai incontrati. Senza spiegarmi quale sia il suo ruolo all’interno della scuola, mi fa accomodare in un camerone largo, luci al neon, scrivanie allineate. Con lui c’è il dirigente, asciutto, scuro, anonimo. «Dal tuo curriculum ho visto che hai fatto tanti anni di scherma. Con quale società?». Il dirigente vorrebbe rompere il ghiaccio, mantenere un tono rassicurante, sereno.  Dura poco, il tempo dei convenevoli. Poi abbassa lo sguardo, si scruta la punta delle dita ed entra in argomento. Mi dice che non può assumermi, perché molti docenti con più esperienza di me hanno fatto domanda e avrebbero la priorità. Chiedo: perché allora sto facendo questo colloquio? «Ti facciamo un contratto come docente. Le ore che farai genereranno una busta paga che firmerai, ma a fine mese io non ti farò il bonifico». Accanto a lui, A.M. annuisce silenzioso. Il dirigente capisce che sono perplessa, ma è preparato anche a quello. Rincara la dose, mi dice che quello dell’insegnante è un mestiere che si fa per vocazione, non per la retribuzione; che molti docenti delle scuole private lavorano solo per fare punteggio, senza avere neppure un rimborso spese. Tra un mezzo risolino imbarazzato e un altro sguardo abbassato a scrutarsi le mani, mi spiega che il mondo delle scuole private, in Italia, funziona così: «Si è fatto così, si farà sempre così. Noi possiamo aiutarti a consolidare i tuoi desideri». Quali desideri, penso: lavorare gratis? Fingere di essere pagata? «Ho visto che scrivi sui giornali» ricomincia il dirigente. Ha l’aria furba di chi ha calato il suo asso. «No ti pagano, vero?». «Mi pagano». «Sei fortunata». E io mi sento umiliata. Poi continua: «Il concetto del lavoratore che vuole essere pagato, purtroppo, in certi settori e in alcune aree geografiche non funziona». Lo dice così, col tono piatto di chi sta spiegando ai ragazzi l’ovvietà del teorema di Talete. Penso che ne ho abbastanza: saluto e vado via. Qualche ora dopo gli farò sapere che non sono interessata alla proposta. E mi verrà da pensare, con un nodo allo stomaco, ai colleghi, agli amici che da anni accettano proposte simili, ovvie e ignobili. Alle umiliazioni che sono costretti a subire conservando il sorriso sulle labbra. L’esperienza con la seconda scuola inizia un giovedì sera. Mi arriva una telefonata: «Professoressa Di Bella? La contatto dall’I.V.M. di T., abbiamo ricevuto la sua candidatura per una supplenza. Mettiamo subito le cose in chiaro. A lei cosa interessa? Noi possiamo far fare solo punteggio». Pausa. «Ci siamo capiti vero?». Decido di stare al gioco. Ci siamo capiti, rispondo. E qualche giorno dopo mi presento a T., a un’ora di autostrada da dove abito.

Mi accoglie un uomo sulla sessantina: capello scompigliato sale e pepe, catena d’oro al collo in pendant con anello e orologio. L’accento forte, marcato, con tutte le dentali masticate e aspirate dei paesi della Piana. «Ciao professoressa». Anche lui mi darà del tu per tutta la durata dell’incontro. Entriamo in un’aula striminzita, lui si piazza in cattedra e mi indica uno dei banchi. Inutili i convenevoli, si presenta come docente e rappresentante dell’istituto. «Siamo una cooperativa, io mi occupo della parte amministrativa». Poi comincia: «Qui soldi non ne abbiamo. Rischiamo di chiudere, ci sono docenti che siccome sono affezionati alla scuola addirittura ci danno un contributo economico. A te non lo chiedo, perché vieni da Catania». Bontà sua. In compenso mi farà un contratto da quattro ore settimanali, ovviamente senza darmi un euro, ma intanto i contributi me li dovrò pagare di tasca mia. Per il resto delle ore mi farà un altro contratto come volontaria. «Se ti farei il contratto fiscale da 18 ore, è come se ti dovrei dare 1.400 euro al mese». Farei, dice. Dovrei, dice. Ormai fatico ad ascoltare. Ma lui continua: «Al giorno d’oggi tutti si laureano, tutti hanno un master. L’unica possibilità di salire in graduatoria è fare punteggio. Qui puoi farlo, ma i soldi non te li puoi tenere. Ti facciamo il bonifico e ci restituisci la somma. Magari in contanti, eh?». Vado via. Un’ora dopo gli faccio sapere che non sono interessata. Ma lui non molla. Mi tampina per giorni: «Se ti viene scomodo fare la strada tre volte a settimana, puoi venire due volte». Sempre gratis? «Sempre». Sempre più afflitta, sempre più nauseata, così mi sento. 

Il giorno dopo, all’ora di pranzo, mi contattano da un Istituto paritario di P. A. Il dirigente ha un tono sbrigativo, non cerca giri di parole: «Buongiorno professoressa, sei di Catania, vero? E non la trovi una scuola dove lavorare a Catania, vero?». Mi dice che sono poveri anche loro, che non si possono permettere di pagare insegnanti e che dunque non guadagnerò nulla. «Al massimo possiamo rimborsarti la benzina, visto che vieni da lontano. Gli dico subito che non sono interessata: ci resta male. Poi penso ai fiumi di retorica ascoltati durante questi anni. Ai cervelli in fuga, ai giovani che abbandonano la propria terra per fuggire al nord o all’estero “e ci auguriamo che tornino…”. Nessuno che si chieda cosa c’è dietro e prima di quel biglietto di sola andata che dobbiamo staccare. Per esempio la prassi ormai accettata che le scuole private, per avidità e per prepotenza, facciano pagare rette salatissime ma poi ti prendano a lavorare senza stipendio, regalandoti in cambio un po’ di punteggio. E alla fine, dopo settimane di colloqui umilianti, e dopo aver realizzato che l’unico modo per lavorare qui in Sicilia è farlo gratis (e ringraziandoli pure!), anch’io ho deciso di accettare una supplenza al nord. Scuola pubblica. Contratto regolare. Busta paga vera. Al telefono, mi hanno dato del “lei”. Alla fine, l’invisibile linea che separa la dignità dall’umiliazione sta anche in certi dettagli.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA