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L'INTERVISTA

Portella della Ginestra, la strage 75 anni dopo e quel complotto mai provato

Lo storico Rosario Mangiameli rilegge il contesto in cui maturò quell’eccidio: «Giuliano cavalcò il conflitto sociale del tempo, non gli servivano suggeritori e fu mitizzato»

Di Pinella Leocata |

Oggi Prima Maggio si celebrano i 75 anni dalla strage di Portella della Ginestra, avvenuta il primo maggio 1947, in cui furono uccise 11 persone, tra braccianti, contadini, donne e bambini.  Lo storico Rosario Mangiameli ricostruisce la vicenda, le sue motivazioni e il ruolo che ha avuto nella nostra storia.

«La scena dell’1 maggio del 1947 è quella dei contadini di Piana degli Albanesi, di San Giuseppe Iato, di San Cipirello e dei dintorni che riprendono l’antica tradizione, interrotta dal fascismo, di vedersi a Portella della Ginestra. Una tradizione importante per quella zona, nata con il movimento operaio e contadino e con i Fasci siciliani. Mentre inizia il comizio Giuliano e la sua banda sparano sui manifestanti provocando 11 morti e 27 feriti. All’inizio non si capisce chi sia stato. Lo stesso Li Causi, capo dei comunisti siciliani, ha dei dubbi. Si comincerà a capire che cosa è successo al processo di Viterbo, tenutosi 3 anni dopo l’assassinio di Giuliano nel 1950, ma la sentenza lascia dei dubbi perché dice che Giuliano è stato l’autore della strage, ma che è troppo ignorante per averla pensata. Da qui nascono tutta una serie di supposizioni e il mito e l’anti mito di Giuliano considerato il bandito buono o il bandito cattivo».

Quali le supposizioni fatte e le motivazioni attribuite alla strage?

«Si pensa che Giuliano sia stato guidato e consigliato da un potere altro, politico, o che faccia parte di una trama internazionale. Un mito che si è trascinato fino ai nostri giorni senza che si sia avuta una spiegazione convincente. La strage di Portella della Ginestra arriva in un momento cruciale della storia dell’Italia Repubblicana. Nel 1947 De Gasperi rompe con i governi di unità nazionale di cui facevano parte le sinistre e forma un governo di centro senza socialisti e comunisti. Inoltre il 20 aprile, dieci giorni prima della strage, si sono tenute le prime elezioni regionali in Sicilia dove il primo partito è il Blocco del Popolo formato da socialisti e comunisti. Ottiene circa il 33% dei voti, mentre la Dc si attesta intorno al 20% e le destre – frammentate in vari raggruppamenti quali i monarchici, i separatisti e i liberali – prendono oltre il 40%. L’esito politico sarà che la Dc minoritaria si allea con una parte delle destre e forma il governo creando una grande tensione tra le sinistre e la Dc, tensione che poi porterà alla vittoria democristiana del 18 aprile 1948. In questo quadro drammatico si creano le narrazioni più sospettose e fantasiose, si teme il complotto della destra contro le sinistre appoggiato dall’America e che la strage di Portella sia un aspetto di questo complotto. Ma gli storici non hanno mai riscontrato questo tipo di spiegazione».

Quali, allora, le motivazioni della strage?

«La spiegazione politica data è che la strage avviene in un momento di grande tensione, frutto della conflittualità sociale in quell’area. In quel periodo erano riprese le lotte agrarie per la quotizzazione del latifondo. E nel 1944 c’erano stati i decreti Gullo, il ministro dell’agricoltura del governo Bonomi, che assegnano una quota maggiore del prodotto della terra a chi la coltiva e una minore ai proprietari, rispettivamente il 60% e il 40%, invertendo le quote precedenti. Riforma poi ripresa da altri decreti di Segni. Una riforma importante, ma difficile da attuare perché i proprietari e i conduttori, in quella zona spesso mafiosi, vi si opponevano e al momento della divisione del prodotto si registravano tensioni molto gravi. La manifestazione dell’1 maggio è all’interno di questa prova di forza tra lavoratori che rivendicano i propri diritti e latifondisti e mafiosi – conduttori e proprietari di latifondi – che resistono».

Come nasce il contrastato mito di Giuliano?

«Giuliano era attivo come bandito dal 1943 e aveva costruito una fama di bandito protettore della sua gente perché faceva contrabbando di grano, come facevano moltissime persone per sfamarsi. Ma aveva costruito un suo potere in accordo con la mafia locale e con i separatisti, spesso latifondisti, e cercava di accreditarsi come forza politica in grado di dialogare con le altre forze politiche. Una situazione frutto di quell’epoca straordinaria. Dopo Portella Giuliano sostenne di non aver voluto uccidere i contadini, ma catturare e “giustiziare” i dirigenti social comunisti. Una versione che tendeva ad alzare la posta nella convinzione di potersi inserire nel grande gioco politico tra gli attori di quello che si annunciava come l’avvio della guerra fredda. Giuliano scriveva a Truman, dispensava consigli, delineava strategie di contenimento del comunismo, mentre compiva attentati terroristici contro le Camere del lavoro della zona. Ma per fare questo non aveva bisogno di suggeritori, la precedente militanza nelle file separatiste è sufficiente a farci capire quanto si potesse fare ricorso a millantate relazioni o protezioni internazionali. La sentenza di Viterbo nega lo spessore politico di Giuliano, non riconoscendo un aspetto molto importante, che le forze che si erano create su quel terreno agivano in una fase in cui non era esattamente chiaro quale fosse la legalità. La sentenza crea sconcerto e lascia tutte le ipotesi aperte, tra cui quella di una trama internazionale. L’avvelenamento di Pisciotta, che minacciava di fare grandi rivelazioni e nomi di politici, ha contribuito ad infittire il mistero».

La strage ha cambiato il corso delle vicende politiche siciliane ed italiane?

«No. Il governo della Dc e delle destre, in seguito alle elezioni regionali, è il frutto di un calcolo politico che segue la logica delle alleanze. Le sinistre avevano vinto, ma non avevano con chi allearsi per fare il governo. La rottura dell’unità nazionale a Roma tra Dc e comunisti venne decisa nel clima dell’inizio della guerra fredda, e non ha a che fare con la strage. Ma la strage crea una grande impressione nell’opinione pubblica nazionale e attira l’attenzione sul potere della mafia e sulla condizione di arretratezza della Sicilia. Il fatto che nell’Europa moderna ci fosse un bandito come nel Settecento e nell’Ottocento, con una banda capace di compiere gesta così efferate, crea un mito che è seguito in tutta Europa. Vitaliano Brancati a Londra vede una gigantografia di Giuliano esposta in pieno centro e vengono pubblicati molti libri sulla vita del bandito. Si crea anche una tradizione popolare di canzoni e cantastorie, ma nei territori mafiosi si potevano cantare solo le canzoni che lodavano e mitizzavano Giuliano, non le altre».

Perché è importante ricordare questa data?

«Perché è la data di una strage di contadini ed è l’importante momento dell’inizio di un processo di civilizzazione del conflitto politico e sociale. Il fatto che si sia ricorso a tanta violenza viene visto come un intralcio, un impedimento a questo processo. Un momento che si è dovuto superare con la forza della democrazia, con le armi del dialogo e con la regolamentazione del conflitto. Subito dopo la strage la rabbia della popolazione montava fino a minacciare una violenza di massa nei confronti dei mafiosi ritenuti responsabili. Fu Francesco Renda, l’oratore designato del comizio, ma arrivato in ritardo per un incidente con la moto, che arginò la collera spiegando che la vendetta avrebbe oscurato la gravità della strage e che così si sarebbe innescata la repressione ai danni dei contadini. Prevalse la ragionevolezza, un segnale forte in direzione della civilizzazione del conflitto. Una eredità preziosa, ancor oggi, e fragile».  COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA