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Intervista a “Mr. Reddito”: «Non è carità, ma banca del capitale umano»

Di Mario Barresi |

E dunque, in una mattina d’inizio giugno, Mimmo Parisi, l’“alieno” del Mississipi, posteggia la sua navicella spaziale a Picanello, quartiere popolare di Catania, e visita il Centro per l’impiego.

«Mi piace come inizio di una storia…».

La continui lei. Cosa resta, a “Mr. Reddito”, di questo primo blitz siciliano?

«Sapevo cosa aspettarmi. In Sicilia, qui a Catania, ho trovato una realtà incoraggiante. Del resto non è che i Centri per l’impiego non abbiano fatto il loro lavoro, tutt’altro. Adesso, però, c’è una nuova sfida. Anzi: un’opportunità. Devono diventare la banca del capitale umano, magari, come dice il vostro assessore siciliano, Scavone, il cuore pulsante dell’economia».

A oggi, per migliaia di cittadini siciliani, sono il posto dove chiedere il reddito di cittadinanza per tirare a campare…

«E questo è il più grosso errore nell’interpretare questo strumento. Molti considerano il reddito di cittadinanza una semplice misura di assistenzialismo. Ma non è così, non è carità. Il fatto che sia una storica riposta a milioni di persone in stato di povertà va considerato come il punto di partenza. Perché tutto quello che mi ha chiesto il ministro Di Maio, e che stiamo realizzando come Anpal, andrà ben oltre».

Dove andrà?

«Andrà verso un contenitore integrato, un sistema per connettere tutti. Chi cerca lavoro, certo. Ma anche chi lo offre. È quello che è successo in Mississipi con il mio “work system”. Non c’è nessuna cosa nuova da fare, nulla da inventare. Basta ampliare ciò che si fa già. I Centri per l’impiego devono attivare la modalità del “saper fare”. Assieme alle scuole, alle università, alle imprese, ma anche con i consulenti del lavoro e con le agenzie private non più come concorrenti ma come partner. E in questa sfida è decisivo il potenziamento dei Centri per l’impiego, che devono diventare il perno, la sintesi di un’offerta che migliora in quantità e in qualità. Per intenderci: a regime io spero che siano un punto di riferimento non solo per chi un lavoro non ce l’ha e lo cerca, ma anche per chi ce l’ha e lo vuole cambiare, per migliorare e per crescere».

A regime, magari, lo scenario sarà quello che descrive lei. Ma prima c’è un percorso a ostacoli. A partire dalla mega selezione dei navigator: più di 50mila candidati per tremila posti.

«Faremo le selezioni alla Fiera di Roma, dal 18 al 20 giugno. Siamo allineati con la tabella di marcia. Quando incontrai Luigi a settembre scorso aveva le idee molto chiare: a ottobre già c’era il piano operativo. Già a metà luglio i primi navigator saranno in campo».

I furbetti sono un costo inevitabile. Sarebbe ipocrita dire

che puntiamo a eliminare completamente il problema, ma possiamo

solo ammettere che sono un costo per il bene collettivo.

 

Perché i navigator li volete laureati?

«Perché saranno le figure centrali dell’intero sistema. Non sono orientatori, né tutor, né progettisti. Il navigator è chi mette in atto una strategia personalizzata per implementare un piano continuo. Noi a queste figure chiediamo soprattutto che abbiano la capacità di pensare, e ciò in teoria dovrebbe essere garantito dalla laurea. Per saper fare il mestiere ci pensiamo noi: li formiamo con un primo step di due settimane e poi sei mesi di formazione continua. E abbiamo preteso di avere l’esclusiva sulla formazione dei navigator: soltanto quelli certificati da noi saranno riconosciuti nel mercato del lavoro».

Vi preparate a un’infornata di assunzioni, mentre in Anpal Servizi ci sono 650 lavoratori precari che aspettano la stabilizzazione. E ora scioperano. Non le sembra un controsenso?

«Io sono arrivato il 25 febbraio. E mi sono subito rimboccato le maniche. Per questo problema ci sono risorse per circa un milione. Ma il punto non sono i soldi, ma fare le cose per bene. Tutto passa da un piano industriale del fabbisogno, ma c’è già un percorso chiaro: entro il 2019 ci saranno le stabilizzazioni, poi una seconda fase l’anno prossimo con le assunzioni anche in base alle esigenze delle Regioni».

A proposito di esigenze delle Regioni. La Sicilia ha una vertenza: quella dei circa 1.700 ex sportellisti. Anche loro potranno essere della partita?

«A Roma è stato aperto un tavolo tecnico, in cui ci sono anche l’assessore Scavone e la senatrice Catalfo, apprezzata presidente della commissione Lavoro. Il prossimo incontro è fissato per il 25 giugno. C’è tutto l’impegno a trovare delle soluzioni sostenibili, che possano conciliare le esigenze professionali per il reddito di cittadinanza e le necessarie previsioni del fabbisogno di risorse umane. Io non sono abituato a prendere impegni che so di non potere mantenere. Dico solo che ci stiamo lavorando».

Un’altra specificità siciliana, ma non soltanto siciliana, è quella dei furbetti del reddito. Nell’Isola ne hanno già pizzicati una trentina. È una guerra persa in partenza?

«I furbetti sono un costo inevitabile. Sarebbe ipocrita dire che puntiamo a eliminare completamente il problema, ma possiamo soltanto ammettere che sono un costo per il bene collettivo. Mi spiego meglio: se si fa lotta alla mafia o alla corruzione, non si azzerano i mafiosi o i corrotti. Ci si impegna, si fa il massimo. Sapendo che qualche furbetto resterà sempre. E, come dice Di Maio, sarà punito, andrà in galera. Ma non si può mettere in discussione, per un costo inevitabile, una manovra che tende al bene comune, a fronte di un valore collettivo molto più alto. Mi sono spiegato?»

Sì. Ma questa misura tendente al bene comune può essere vanificata dalla crisi di governo? A Roma dicono che si rivoterà in autunno...

«Vede, il problema del lavoro non è politico né legislativo. In America c’era con Bush, Clinton, Obama e c’è con Trump. In Italia ci sarà anche dopo Di Maio. È chiaro che io mi auguro che questo governo rimanga a guidare l’Italia, ma, dopo aver fatto una riforma per la prima volta dopo il 1997 e dopo aver investito un miliardo, sarebbe da stupidi interrompere un percorso che oltretutto è stabilito da una legge dello Stato. Poi, è chiaro, ogni governo fa le sue scelte sulle politiche del lavoro. Ma secondo me quella presa, in termini di potenziamento dei Centri per l’impiego come perno del sistema, è una strada da cui non si può tornare indietro».

Il suo arrivo in Italia è legato al rapporto con Di Maio. Ci racconta come vi siete conosciuti, com’è nato questo colpo di fulmine?

«Quando Luigi mi cercò non c’eravamo mai visti, non ci conoscevamo. Lui aveva sentito parlare di me, io l’ho ascoltato. E di lui mi hanno colpito subito due cose. La prima è la genuina volontà di fare qualcosa di buono per il Paese. La seconda, che mi ha scioccato, è che non gliene frega niente delle mie idee politiche e non mi ha mai chiesto di essere leale con il M5S».

Praticamente una beatificazione del suo dante causa…

«Non ce n’è bisogno. Io sono qui perché Luigi non mi ha detto “vieni e ti dico cosa fare”, ma “vieni e aiutami dicendomi cosa bisogna fare»

Nessuna pressione dalla politica? Se non dai grillini da altre parti…

«Nessuna. Io ho ricevuto critiche, brutte parole, persino la fake news sul “software di Parisi” che dovevo venire a vendere e che non esiste! Io ho preso un impegno con Luigi e lui pure. E l’abbiamo rispettato entrambi. Lui è stato corretto e non mi ha mai mollato, io spero di restituire un po’ di ciò di grandissimo sto ricevendo da quest’esperienza. Io non sono qui per comandare, ma per governare questo processo. Se mi lasciano lavorare farò bene».

Insomma, non s’è pentito di aver lasciato il Mississipi per venire in questa gabbia gialloverde di matti?

«Assolutamente no. Io spero di raggiungere l’obiettivo più grande, che è il cambiamento culturale nel mondo del lavoro. Non dovremo dire, come fa il perdente, “è possibile, ma è difficile”. Ma dobbiamo usare le parole del vincente: “È davvero difficile, ma è possibile”».

Twitter: @MarioBarresi

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