ROMA – Il sì della Camera in mattinata, quello del Senato in tarda serata: il via libera del Parlamento italiano al Recovery Plan targato Mario Draghi arriva senza patemi per il governo. «Oggi è un giorno positivo per l’Italia», è la chiosa del capo del governo. Entusiasmo e «gusto del futuro», insomma, per una sfida epocale che Draghi ha voluto chiudere il prima possibile. «Il 30 aprile non è una data mediatica. Se consegnavamo il piano il 10 maggio i soldi arrivavano a giugno, o peggio, dopo l’estate», sottolinea. Ed è dal giorno dopo l’invio del Pnrr a Bruxelles che, per il governo, comincerà la parte più difficile, a cominciare dalla partita delle riforme. «Senza di loro dispero di spendere bene questi soldi», spiega il presidente del Consiglio richiamando i partiti a lavorare insieme: «c’è accordo se c’è volontà di successo». Nelle due repliche, a Montecitorio e a Palazzo Madama, Draghi cerca di togliere ogni dubbio sulla sua figura di uomo solo al comando. «Non ho mai detto a Ursula von Der Leyen “garantisco io», non è il mio stile», sottolinea. Il tempo a disposizione per esaminare il Pnrr è stato minimo, e Draghi non lo sa. «Il governo ha profondo rispetto per le Camera», rimarca non a caso l’ex governatore della Bce alla Camera. Dando la traiettoria di quando e come il Parlamento potrà influire: sui decreti attuativi delle sei missioni e delle riforme previste, ad esempio. Decreti che partiranno già a maggio, con il provvedimento sulle semplificazioni già in dirittura di arrivo. Il piano è ambizioso. L’importante, per Palazzo Chigi, è che non suoni utopistico. Con il Recovery Plan «l’Italia non sarà più la stessa», promette Draghi. Che, rispetto alla corruzione e alle miopie di parte elencate nel suo intervento di lunedì alla Camera, individua un ulteriore nemico per il compimento del Pnrr: «l’inerzia istituzionale». «Le risorse – avverte – saranno sempre poche se non si usano».
Il libro dell’Italia del futuro attraversa le Aule parlamentari senza scossoni. Alla Camera sono 442 i sì alla risoluzione di maggioranza alle comunicazioni del premier. E Fratelli d’Italia si astiene. Al Senato i numeri sono ugualmente bulgari. Matteo Salvini, in Aula, sveste i panni del barricadero usati per il coprifuoco. «Presidente, diffidi dagli yes man. La Lega c’è, siamo alleati leali, a sinistra qualcuno dice ‘purtroppò», dice l’ex ministro rivolgendosi a Draghi. «Avremmo preferito avere più tempo ma non è vero che il Parlamento sia stato escluso», lo aveva preceduto in mattinata il capogruppo alla Camera Riccardo Molinari. Parole che la Lega invia direttamente agli alleati all’opposizione di Fdi. «Il Parlamento su questo piano è stato ignorato, verrebbe da dire deriso ed è stata una scelta politica», era stato infatti l’attacco di Giorgia Meloni. Ma il dado, ormai, è tratto. Il Consiglio dei ministri, che potrebbe essere convocato per giovedì, formalizzerà il via libera a Bruxelles del Piano. Entro luglio, Roma attenderà la prima tanche di fondi, di circa 24 miliardi.
Nel frattempo toccherà a Draghi destreggiarsi tra i decreti e i disegni di legge legati al Recovery. Il tempo non è infinito. Il controllo dell’Europa è periodico e, con l’avvicinarsi della fine della legislatura lo scetticismo dei tecnocrati di Bruxelles potrebbe crescere. E Draghi prova già a smussare i nodi divisivi nella maggioranza. Sul Superbonus c’è l’impegno alla proroga al 2023 e il dl semplificazioni in campo semplificherà la misura. Sulla riforma del fisco la deadline è il 31 luglio e, spiega il premier, «è auspicabile una ampia condivisione politica». Mentre per la riforma della giustizia, che potrebbe essere la più divisiva di tutte, il governo nell’ultima versione del Pnrr si dà tre mesi di tempo. I nodi politici, è il timore della maggioranza, potrebbero emergere con l’inizio del semestre bianco. Per ora, tuttavia, sul Recovery regna una patina di concordia. Nel Movimento si ricorda l’opera di Giuseppe Conte. Matteo Renzi rivendica che, quel governo, lo ha fatto cadere e ne è valsa la pena. Ma non è tempo di zuffe sul Recovery. E perfino l’osservazione di Nicola Fratoianni, secondo cui dal piano è stato espunto il salario minimo legale, non smuove chi, come il M5S, di quella misura ne ha fatto bandiera.